Il personaggio
Oberto è un personaggio che si risolve in quattro situazioni drammatiche. Scorriamole nell’ordine in cui il libretto ce le presenta: un incontro tra un padre irato, Oberto, e una figlia, Leonora, che egli crede fedifraga. Un abboccamento tra il predetto padre, la figlia e una rivale, Cunizza, che, essendo ignara del tradimento del promesso sposo, Riccardo, già seduttore dell’altra donna, di fatto non è rivale; un padre che freme attendendo un seduttore, ritenuto a buon diritto vile; un confronto tra le due donne e i due uomini. In pratica: un Duetto, un Terzetto che sfocia nel Finale del I Atto, un’Aria e un Quartetto.
La storia vuole Oberto politicamente perdente e perseguitato. E’ fermo nello sdegno per l’orrore del nome macchiato. In questa prospettiva il carattere non ha alcuna evoluzione nel corso del dramma. Muta però la posizione nei confronti della figlia, vittima, non del tutto assolta da una colpa che in qualche modo ha incoraggiato, secondo una visione maschilista del mondo femminile. Non a caso Leonora è contrapposta alla madre, evocata da Oberto, come esempio di rettitudine. Il problema è quello dell’onore, che attraversa tutta la produzione di Verdi e va a finire nel Falstaff, dove il grasso protagonista lo smonta con evidente ironia. L’onore offeso fa passare ogni altro problema in secondo piano, compresa la morte che Oberto è pronto ad affrontare, sapendo il rischio che corre, dal momento che il seduttore è molto più giovane di lui.
La voce, il ruolo e la vocalità
Oberto è il primo padre verdiano. Il Compositore scrisse la parte di Oberto per un basso e non per un baritono, come accadrà per più celebri figure paterne, per esempio Rigoletto o Simone. La scelta può essere stata suggerita dalla presenza di Ignazio Marini nella compagnia scaligera. Tuttavia non sarà l’unica volta in cui Verdi affida il ruolo di un padre a un basso: basti l’esempio del Conte di Walter, del Marchese di Calatrava e di Filippo II. E’ vero però che nella Luisa Miller il baritono riveste già un ruolo di padre, mentre nella Forza del Destino e nel Don Carlos ne gioca un altro.
Fin dal Duetto con Leonora, “Oh patria terra-Guardami! Sul mio ciglio”, la vocalità di Oberto gravita nella zona centrale della voce tra il do e il do, si spinge fino al mi acuto, richiede forza, per esprimere uno sdegno furibondo. Pur tuttavia necessita di una qualche dimestichezza con il canto semisillabico nell’Andante Maestoso, “Il suo favor soccorrimi”, e l’arte di dare a un accento sempre virile una qualche affettuosità nel Moderato, “Un amplesso ricevi, o pentita!”. La caratteristica di Oberto è proprio quella di un indomito orgoglio. L’Andante dell’Aria del II Atto, “L’orror del tradimento”, lo rende evidente, suggerendo alla voce di accelerare il ritmo, non permettendole di cullarsi sulla cavata, con una tessitura che arriva al mi acuto, da accentare con forza. Nella Cabaletta, “Ma tu superbo giovane”, la voce si spinge invece fino al fa acuto e la melodia è di quelle scolpite. Il passo richiama alla mente l’Arnoldo dell’Adelia che Donizetti scrisse proprio per Ignazio Marini. Ma Adelia è del 1841 e Oberto è del 1839. E’ improbabile che Donizetti, all’apice della sua carriera, imitasse l’opera di un giovane non ancora di belle speranze. E’ più logico supporre che fosse Marini a suggerire o a ispirare soluzioni convenienti alla sua voce. Marini era in carriera da sette anni, avendo debuttato nel 1832 a Brescia nella Didone abbandonata di Mercadante. Era una gloria lombarda, di casa a Milano che alternava a Vienna. Verdi dunque lo aveva ascoltato con frequenza per sapere che possedeva un bel registro acuto. Alla Scala del ’39 era stato Duca di Nottingham nel Devereux, ammesso che in quell’occasione la tessitura del personaggio, peraltro da bass bariton e non da autentico baritono, non fosse stata modificata.
L’interprete: Michele Pertusi
Nel dopoguerra nei principali teatri italiani le rappresentazioni di Oberto, Conte di San Bonifacio sono state poco numerose. Nel 1951, cinquantesimo anniversario della morte del Compositore, alla Scala, il lavoro viene recuperato con Tancredi Pasero, certo la voce più illustre tra quelle che hanno frequentato il ruolo del titolo, e alla Rai di Torino con Giuseppe Modesti. Poi Oberto sparisce per ricomparire tra il ’77 e il ’79 al Comunale di Bologna con Ferruccio Furlanetto e con Simon Estes scelto per l’edizione Cetra. Purtroppo il phisique du rôle del basso di colore non trovava l’adeguata compensazione nella voce, importante, ma tecnicamente sconnessa. Nel 1999 venne ripreso al Teatro Lauro Rossi nell’ambito della XXXV Stagione dello Sferisterio di Macerata, in un allestimento felice di Pier’Alli. Nel ruolo del titolo c’era Michele Pertusi. La Foné registrò l’esecuzione. Nel 2002 quello spettacolo venne ripreso alla Scala e al Carlo Felice. Nella parte di Oberto si alternavano Giovan Battista Parodi, Nikola Mjalovic, Dejan Vatcov.
Con un passato da basso rossiniano, Michele Pertusi si affacciava allora a un repertorio più consistente nel quale era compreso anche Verdi. L’Oberto di Macerata dimostrava l’aspirazione dell’artista emiliano ad allargare il suo repertorio, ben fotografata anche da due cd, fuori commercio, pubblicati dalla Fondazione CariParma e dal Teatro Regio di Parma, Da Oberto a Don Carlos, o da debutti riusciti. La scelta era destinata a fare discutere e a sollevare perplessità.
Pertusi non è una voce verdiana così come la tradizione l’intende: torrenziale e potente. Ma è ben timbrata, emessa con morbidezza, secondo una tecnica corretta corroborata dalla frequentazione con il repertorio belcantistico, la cui riscoperta e diffusione ha comportato il diffondersi di voci più duttili, anche se meno imponenti. Rispetto a Pasero o a Siepi, Pertusi era ed è un peso piuma. Non dimentichiamo poi che la prefata tradizione vuole la voce verdiana oltre che robusta anche brunita. Se la robustezza trova la sua ragione nello strumentale denso, nell’orchestrazione non certo leggera, la brunitura del timbro è un fatto di per sé discutibile.
Ma intanto Oberto non è Filippo II né Fiesco: abbisogna dunque di un minore tonnellaggio e di un diverso colore. Se si può disquisire sul peso di un cantante verdiano, non si può discutere su un altro requisito fondamentale che a Macerata Pertusi dimostrò di possedere: esso non consiste in un particolare tipo di voce, ma nell’accento, in quell’accento, detto verdiano appunto, che richiede di mordere la parola, di conferirle un’incisività che anche il Donizetti più drammatico, per es. quello di Marin Faliero (Pertusi l’ha cantato in maniera eccellente), non richiede.
Il phisique du rôle conferiva al suo Oberto la giusta imponenza, con il portamento adatto a una figura paterna, anche se quella disegnata da Pertusi non era senile, ma, giustamente, manteneva una combattiva virilità che ben si adatta al personaggio e alla sua funzione drammatica. Da qui l’impeto convincente del Duetto con Leonora, dove nel tempo di mezzo, l’Andante Maestoso, Pertusi, abituato al belcanto del primo Ottocento, trova tutta la necessaria morbidezza, suono ed accento più raccolto, mentre si mangia in un boccone i semplicissimi passi melismatici che increspano la melodia. Nel Terzetto, soprattutto nel Finale, Pertusi prestava a Oberto una bella determinazione per evidenziare la sua sete di vendetta. Pertusi insomma faceva la sua figura e conferiva a questo padre una credibilità scenica, cosa che non è affatto secondaria nella resa di un personaggio. Le ridotte dimensioni della sala del Lauro Rossi permettevano a Pertusi di convincere senza forzare e di trovare il giusto equilibrio con l’orchestra, che in quell’occasione era diretta da Daniele Callegari.
Pertusi non mancò, né manca anche in disco, l’appuntamento con l’Aria del II Atto che proprio per la sua vocalità favorisce un basso verdiano così stilizzato nella sua modernità oppure, se non si vuol essere buonisti, così leggero. L’incalzare della melodia lo mette al riparo da quelle grandi frasi come “Non imprecare; umiliati”, “Dormirò solo nel manto mio regale”, “Il serto a lei degli angeli” che richiedono il fluire maestoso degli armonici, tipico della vocalità dei bassi verdiani, necessario per affrontare le opere dell'ultimo periodo, quando il Compositore aveva ormai maturato la coscienza di questa corda vocale, imparando a sfruttarne tutte le risorse.
Peraltro non va dimenticato che Pertusi ha saputo incarnare con credibilità Attila, riportando sulle orme di Samuel Ramey il personaggio e la sua vocalità in un alveo stilistico più corretto e credibile di quello di molti bassi slavi dalla voce tonitruante. Semmai un basso verdiano, come Pertusi, richiede un direttore che sappia creare un giusto contesto e raccogliere il suggerimento per una rivisitazione moderna della voce verdiana. Sotto questo profilo l’Oberto maceratese riveste un’importanza particolare che va oltre la ripresa di un titolo abbastanza raro, di non frequente esecuzione.
Proprio per le caratteristiche fin qui messe in evidenza Pertusi canta con giusto vigore la Cabaletta, che è poi il momento più spiccatamente verdiano della partitura. Ne rende quello spirito, tipico della vocalità degli Anni di Galera, che ha spinto Rossini a parlare di Verdi “con il casco”, per il piglio militaresco. E’ il momento più alto dell’Oberto di Pertusi, assieme al Quartetto. Vi si fa valere il bel colore della voce, il timbro da autentico basso. Regge alla perfezione il suo ruolo drammatico e musicale: dare alla pagina una tinta noir. Vi recita molto bene la parte di un implacabile padre, che con la sua determinazione, quasi diabolica, anticipa e annuncia l’inesorabile cattiveria di Silva. Qui, come altrove, lo fa sulla scorta dell’accento che dà incisività alle parole. Si tratta insomma di una lettura esaustiva che, seppure per un solo personaggio, fa entrare Pertusi nella galleria degli interpreti verdiani.
Giancarlo Landini
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Libretto di "Oberto, Conte di San Bonifacio" - in formato pdf | 149.58 KB |
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Michele Pertusi: Oberto, Conte di San Bonifacio - L'orror del tradimento - recitativo
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Michele Pertusi: Oberto, Conte di San Bonifacio - L'orror del tradimento - cabaletta