16 settembre 2007
A distanza di trent’anni dalla morte possiamo ben parlare di “paradosso Callas”. Abbiamo verificato dalle innumerevoli biografie e dai tanti filmati a Lei dedicati che la Callas è oggi più viva che mai. I suoi dischi vendono a raffica, con continue ristampe, incessanti rimasterizzazioni, copertine che mutano di colore e di impostazione grafica ma che restituiscono sempre lo stesso, importantissimo lascito. Non so quante repliche esistano di quella famosa “Tosca” diretta da De Sabata, per quante etichette. Si sono moltiplicate le pellicole e i documentari dedicati alla Divina; la Emi ha fatto la propria fortuna e mentre si registra il crollo delle vendite di qualsiasi altro cofanetto operistico, quelli della Callas, preziosi scrigni di un’ Arte che è ancora tutta da scoprire, continuano magicamente ad andare a ruba. Il post-Callas ha registrato la vera e propria esplosione delle cosiddette “nuove-Callas” , un fenomeno imitatorio che ha coinvolto schiere di vocaliste anche superbe, ma invasate dallo spirito della grande greca. In almeno due casi assistiamo alla possessione medianica: Lucia Aliberti, inizia la carriera con voce squisitamente lirico-leggera, si tramuta repentinamente in un clone, giungendo a truccarsi e ad abbigliarsi come la Callas nei noti filmati; Maria Dragoni, gratificata di un timbro privilegiato e di uno spessore drammatico inconsueto, è certa di essere una reincarnazione del divino modello , come i suoi amici ben sanno, e ne ripercorre una a una le tappe, affrontando impavida la “Turandot” e il “Macbeth” assieme alla “Lucia” e alla “Sonnambula” (unica italiana a cimentarsi in simili voli pindarici). Difficile sottrarsi al fascino perverso di quel timbro così speciale, così poco consueto, così fuori da ogni canone classico.
La Callas dimora e regna tra incredibili paradossi. Idolatrata alla follìa dai suoi fans, osannata e divinizzata dai melomani, muore invece sola, triste, abbandonata, peggio della sventurata Manon Lescaut, che almeno aveva l’amato al suo fianco. Carlo Maria Giulini mi raccontò un episodio significativo: “Andai a trovarla a casa sua, a Parigi. Mi accolse con grande simpatia e mi pregò di scusarla se durante la nostra conversazione avrebbe tenuto accanto a sé il telefono. ‘ Sai ‘ disse ‘ Aspetto alcune chiamate importanti’ . ‘ Figurati Maria’ le risposi. Restai da lei tutto il pomeriggio. Il telefono non squillò mai.” L’ ultimo anno di Maria Callas deve essere stato terribile. Chiesi a Di Stefano, il suo ultimo grande amore, dove fosse lui in quei giorni: ”Avevo ancora la mia carriera, da un anno non stavamo più insieme, in effetti non ci sentivamo più da parecchio.” Un anno di completo oblìo. Se il nostro mondo fosse meno ingrato e ipocrita non avrebbe abbandonato così quello che oggi tutti definiscono un “mito”. Di questi paradossi e di questi estremi, però, il mito si nutre e ingrandisce la propria fama. Del resto la Callas non aveva fatto nulla per rendersi simpatica, anzi. In un facile, immediato parallelo con un altro divo, recentemente scomparso, Pavarotti, verifichiamo la secca antipatia dell’una contro la schietta bonarietà (apparente) dell’altro: tanto ridanciano e pantagruelico il Pavarotti International, tanto chiusa e arcigna la Medea del Belcanto; tanto aperto e disponibile alla canzonetta, persino rock, il tenorissimo, tanto limitata e ossessiva nel suo repertorio la Duse della Lirica, disposta a morire pur di cantare ancora un’esausta Norma o una stridente Tosca.
Paradossi al limite dell’incredibile.Tra lo sgomento e la vedovanza di tutti, la Callas ci lascia senza una Norma intera in video, senza una Tosca integrale, senza una Traviata, senza una Medea se non quella, Dio mi perdoni, noiosissima di Pasolini, senza la Sonnambula, senza il Pirata, senza….niente. Se non con briciole di quell’arte sublime, lacerti e spezzoni di pessimi filmati amatoriali, in cui la Callas appare ora verde e sfuocata, ora minuscola, ora indefinibile. Attiva tra il 1948 e il 1965, almeno, e protagonista di serate che a ben ragione possiamo definire storiche , la Callas non viene documentata da nessuno? Ma come? Oggi siamo bombardati da qualunque documentario , abbiamo Hitler in tutte le salse, abbiamo guerre e campi di concentramento filmati nei più orridi dettagli….e non abbiamo un’opera completa con la cantante più importante del secolo? Cosa è successo? Chi occulta taluni documenti importantissimi, tra cui la Fedora (solo audio) e il secondo atto della Sonnambula della Scala, con la regìa di Visconti (video!)? Più che un paradosso, è il sospetto di un piano preciso, legato sicuramente a fatti speculativi.
Il più grande dei paradossi, il canto della Callas, la voce della Callas. Una voce a detta di tutti “brutta”, aspra, metallica, a volte stridente che per magìa può apparire bella, luminosissima, intensa, persino vellutata. E’ nella Callas fuori repertorio che scopriamo i veri gioielli e probabilmente il segreto della sua grandezza. Privata dei suoi fuochi d’artificio pirotecnici, acuti e sopracuti, la Callas sonda regioni ignote a tante delle cosiddette specialiste del repertorio verista, in opere come Andrea Chénier, Wally, Cavalleria, Pagliacci,Bohème,Tosca ovviamente, Manon Lescaut, Butterfly, Turandot,Adriana Lecouvreur; è in queste incisioni (alcune sono opere complete) che scopri una delle Sue grandi alchimie , la forza dell’interprete che parte sempre e solo dalla musica, dal dettato dell’Autore. Quello che dovrebbe essere il sistema di tutte e tutti, nella Callas diventa arte applicata: il soprano si accosta allo spartito come potrebbe fare, se sapesse cantare, un ingegnere o un orefice. Gli esempi sono innumerevoli, ma basta lasciarsi guidare dal secondo atto di Butterfly nell’edizione diretta da Karajan, o dalla Bohème o dall’ultimo atto della Manon Lescaut. Resto sempre basito di fronte alla miriade di notazioni espressive che suggerisce un brano, altrimenti poco citato, come il duetto con Tonio nei Pagliacci di Leoncavallo, un piccolo capolavoro ( grazie anche alla fenomenale partnership di Tito Gobbi). Quanto alla “Mamma morta” dello Chénier, eseguita in modo asciutto e intenso, come l’Autore voleva, non è un caso che nel film “Philadelphia” di Jonathan Demme (1993) diventi addirittura un momento topico, la scena madre, ben al di là dalla semplice aria d’opera.
Giuseppe Di Stefano ha sempre sostenuto che la voce della Callas fosse quella d’un soprano di coloratura e non quella d’un soprano drammatico. Forse ha ragione il grande Pippo: se ascoltiamo per l’ennesima volta l’Armida di Rossini, l’aria di Fiorilla (edizione dal vivo) dal Turco in Italia, la Lakmé, la Dinorah,la Sonnambula,la Lucia, il “Mercé diletti amici” con Serafin degli anni d’oro, le leggendarie variazioni di Proch, ci rendiamo conto dell’autentico amore spassionato che ebbe la Callas per il Belcanto, fatto di trilli e sopracuti, variazioni e volatine. Il tutto risolto magistralmente, ben inteso. Probabilmente, se la Callas avesse limitato il suo repertorio a quel genere sarebbe durata il doppio, avrebbe continuato per un’altra ventina d'anni, come Lily Pons, come la Tetrazzini, come oggi la Gruberova. Mi domando: a qual pro? Per giungere sessantenne a vestire i panni di Rosina, di Amina, di Lucia? Come tante Baby Jane’s dell’Opera? Io credo che la Callas abbia fatto benissimo a seguire le ragioni suggerite dal proprio cuore e dal proprio temperamento.
Tanto attenta , tanto tenace, concentrata e analitica con l’amato melodramma, tanto vaga e incauta nelle questioni amorose, con una sequenza tragicomica di uomini sbagliati al suo fianco. La tigre, la vipera, la donna forte che domina le vette del pentagramma diventa un povero uccellino indifeso, umiliata dalla smania manageriale dell’anziano “cumenda” Meneghini o ,assai peggio, dalla boria e dall’arroganza di Onassis , l’uomo più amato e più inopportuno al tempo stesso. Le cronache del cosiddetto “periodo mondano” della Callas sono, viste oggi, come una penosa via crucis, costruita sul rimpianto per i grandi palcoscenici e su amori inesistenti. Circondata da tutti, da troppe persone, è in realtà una donna sola e sola, con i suoi fantasmi, muore trent’anni fa a Parigi
Enrico Stinchelli
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G.Rossini - Il Turco in Italia: "non si dà follia maggiore" - 19.10.1950 - dir. G. Gavazzeni - Teatro Eliseo di Roma
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L.Cherubini - Medea: "dei tuoi figli" - 10.12.1953 dal Teatro alla Scala di Milano con la direzione di L. Bernstein
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V.Bellini - Norma: "Casta diva" - 7.12.1955 dal Teatro alla Scala di Milano con la direzione di A. Votto