Il personaggio
Venezia: il potere occhiuto e terribile del Consiglio dei Dieci al quale nessuno sfugge, neppure il Doge. Un Doge ottuagenario, che ha servito fedelmente la Repubblica, ma che ha perso tre figli e ora rimane impigliato nella controversa vicenda dell'ultimogenito, che i suoi nemici riescono a fare passare per traditore. Ma il Doge non può essere padre. Il ruolo lo condanna alla funzione di garante di una legge, che i patrizi amministrano a danno suo e della sua famiglia. Le lacrime della nuora, Lucrezia Contarini, non servono a nulla. Jacopo muore di dolore, mentre sta per andare in esilio. Il Doge, raggiunto dalla ferale notizia, costretto ad abdicare, cade stroncato, mentre le campane di San Marco annunciano l'elezione del successore.
La voce, il ruolo e la vocalità
I Due Foscari vanno in scena all'Apollo di Roma il 3 novembre1844. Achille De Bassini canta la parte del Doge. Il giovane baritono ha venticinque anni. Si è formato alla scuola di Donizetti e Bellini, ma si è convertito al repertorio verdiano, di cui diventa interprete privilegiato. Ha voce importante, slancio, gesto che conquistano le platee e che gli valgono il titolo di secondo Ronconi, con riferimento a quel Giorgio Ronconi, basso baritono delle scene liriche italiane. Francesco Foscari è ruolo di padre, il terzo della produzione verdiana, dopo Oberto e Nabucco. Il dramma si concentra tutto nella sua figura, in una paternità perseguitata da un destino crudele, che gli ha già tolto i primi tre figli, e che ora, per una serie di coincidenze, gli sottrae l'ultimo. Nel I Atto il Doge si presenta al pubblico nella solitudine delle sue stanze. Verdi gli affida un'Aria, "O vecchio cuor che batti", cui segue un rapido Duetto con Lucrezia. La vocalità spiccatamente baritonale esprime il cordoglio di un cuore indomito, cui l'età non toglie il coraggio e che, dunque, alterna il canto patetico a quello di slancio, come conviene ad un eroe, benché ottuagenario. Il II Atto, che si conclude con la scena del Consiglio dei Dieci e la condanna definitiva di Jacopo all'esilio, trova il suo apice nel Terzetto e nel Quartetto del I Quadro, quello del carcere, dove la presenza di Francesco Foscari è determinante. Ma la vicenda del Doge si compie nella scena finale del III Atto: il concitato dialogo con i Dieci che lo astringono a dimettersi; l'Aria, "Questa è dunque l'iniqua mercede?"; il passo concertato, dove "Quel bronzo finale", sorta di Cabaletta con Coro e Pertichini, è chiamata ad esprimere l'estrema protesta del Doge, cui il fato consente solo di morire.
L’interprete: Renato Bruson
Nel dopoguerra la storia dei Foscari comincia nel '51 con la ripresa alla Rai di Milano in occasione del cinquantenario della morte di Verdi. Francesco è Gian Giacomo Guelfi. Iltestimone viene raccolto nel '67 da Piero Cappuccilli e nel '71 da Renato Bruson, che li intona alla Rai di Torino. Li ritrova alla Fenice di Venezia e poi via via nel corso della carriera in edizioni sempre memorabili, tra cui mi piace ricordare quella della Scala di Milano del 1988 o l’altra dell’Opera di Roma del 2001. Il disco e il video non hanno perso l’occasione di testimoniare il suo Doge, conservando una documentazione inoppugnabile che va a sommarsi a ricordi di quanti, tra cui il sottoscritto, l’hanno visto in scena. Si tratta di registrazioni live, tanto più preziose, perché colte nella verità della scena: il citato debutto radiofonico, diretto da Maurizio Arena, le recite veneziane del ’77 con Bruno Bartoletti, quelle torinesi dell’’84, ancora con Arena, il video scaligero dell’88 con Giannadrea Gavazzeni, e lo spettacolo di Pier Luigi Pizzi.
Baritono di rilevanza storica, per avere atteso ad una lettura del repertorio italiano dell’Ottocento, condotta alla luce di una rinnovata coscienza stilistica, sostenuta da una tecnica eccellente che riprende in tempi moderni la lezione del belcanto, Renato Bruson, che si è messo in luce come uno dei più insigni interpreti verdiani del dopoguerra e dei maggiori dell’intero XX sec., ha maturato con Francesco Foscari un rapporto esclusivo e completo tale da farci dire che il celebre artista non ha interpretato il Doge, ma è il Doge stesso. Di allestimento in allestimento l’identificazione è andata sempre più affinandosi fino a farsi totale e a portarsi via il personaggio. Chi l’ha visto nei panni del Doge non potrà più essere soddisfatto da nessun altro approccio, seppure rilevante.
Un legame così forte nasce prima di tutto dall’identificazione della voce con il personaggio. Descriverne con le parole il timbro e il colore è un’impresa assai difficile. Quella di Bruson è chiaramente baritonale con delle ombreggiature scure che non a caso gli hanno consentito di affrontare anche parti da basso-baritono, come Don Giovanni o Falstaff. Libera da sonorità fosche e cavernose risuona nobile e solenne. Il cantante la porge con dignità e vi cerca le tinte della gravitas, adatte a dipingere il ritratto dell’uomo maturo e pensoso: determinato e imperioso, di una virilità decisa, inequivocabile, mai esibita e pertanto ancora più forte. Quella che gli detta il giusto fraseggio nei momenti di più forte tensione, come"Sarò Doge nel volto, e padre in core" o, ancora, "Il Consiglio ha giudicato: parti, o figlio, rassegnato."Quella che gli detta lo scatto rabbioso di "Questa è dunque l’iniqua mercede?", con un attacco segnato da una forza interna, dall’accento utile ad esprimere la protesta contro un potere tirannico che rappresenta e che pure lo domina. Eppure tanta determinazione, nella quale si intuisce il condottiero, il soldato tre volte Doge, l’uomo abituato al comando, sa trasformarsi proprio nel procedere della melodia così che, arrivata a "A me padre un figliolo innocente", si è già velata di una struggente malinconia, come se le note non riuscissero a nascondere il pianto. In verità questo sapore l'avevamo già gustato nel I Atto, quando il Doge si lascia guardare dal pubblico nelle sue stanze private e intona "O vecchio cor che batti". Lì, però, come esige la situazione, la voce di Bruson trova un colore più adatto a esprimere un’intimità dolente. Non ci sono i patrizi da sfidare. E’ la vocalità stessa che è diversa e si fa ripiegata, come accade anche nella Stretta del successivo Duetto con la nuora, Lucrezia Contarini. Con intuizione geniale, Verdi non fa cantare il baritono sullo stesso ritmo del soprano, ma gli affida una nuova frase, "O vecchio padre misero" che prolunga il sentimento intonato nell’Aria. Vero è che nell’affrontare la figura del Doge Bruson ha colto, come nessun altro e più di ogni altro, la dimensione patetica, nel senso etimologico del termine, della vocalità del personaggio, vale a dire la capacità di tradurre in suono il pathos, cioè l’espressione di un dolore che non ha soccorso e che trova sfogo solo nel confessarsi apertamente. Il risultato dell’interpretazione sta nella perfezione di un canto dignitoso, nobile, onorevole, non turbato mai da alcuna volgarità, da alcuno sforzo, da alcuna disomogeneità.
La voce si inarca e affronta senza colpo ferire una tessitura che sa essere acuta e severa, in virtù di un uso perfetto della risonanze in maschera che, mentre danno proiezione al suono, gli mantengono la necessaria rotondità che il canto verdiano sempre esige. Ma proprio in virtù dell’omogeneità della gamma sempre sostenuta e vibrante, Bruson, arrivato al cuore della Cabaletta, "D'un odio infernale", ha tutto lo slancio per volare sui mi e sui fa che segnano la melodia. Il Doge non protesta più contro i patrizi. Si ribella contro qualcosa di più forte, contro un fato di cui i patrizi stessi sono solo uno strumento: è una lotta impari, nella quale l’uomo ha solo il potere della protesta. Gli acuti sono ghermiti di slancio: Foscari muore da combattente. E’ vecchio d’anni, ma non d’animo. Giova al personaggio che gli acuti di Bruson non siano troppo chiari e squillanti, ma sempre mantengano la loro interna gravità, quella saggezza che Loredano, l’eterno nemico, aveva ironicamente richiesto al Doge nella scena del carcere. Ma lì, nel Terzetto mirabile con Jacopo e Lucrezia era ancora il tempo dell’amore e dell’affetto. Qui invece è il momento dello sdegno: per essere stato costretto a rompere un giuramento, dopo essere stato forzato a promettere che sarebbe morto in trono; a sopportare l’elezione del nuovo Doge, mentre è ancora vivente; per avere perso anche l’ultimo figlio, morto proprio prima di partire; per essere vittima di un ingranaggio infernale che lo condanna ad una vita assurda e ad una morte ancora più irragionevole.
La pienezza vocale di Bruson, che non fa affatto rimpiangere gli interpreti del passato, testimoniati da preziosi 78 giri, come Pasquale Amato, si sposa ad una felice definizione scenica. Quell’andare gravato dal mantello dogale, luccicante d’oro, che sembra pesargli addosso come se fosse di piombo. Un uomo stanco, rotto dalla durezza dell’esistenza, logorato dalla sorte, piegato su se stesso. Un uomo dal gesto composto che si apre alla carezza nella scena del carcere, ma che diventa deciso, quando nel I Atto ricorda alla nuora che rappresenta la legge e lei parla al Doge prima che al padre di suo marito. Un uomo che nella scena del Consiglio siede in trono con la dignità di un monarca: un principe appunto. Un uomo che nel finale si fa piccino, quando spogliato dal regale manto rimane con una sorta di vestaglia bianca, privato del dogale copricapo, con i radi capelli che l’età gli lascia. Allora il Doge ci appare in tutta la debolezza fisica di una persona vecchia e stanca, con lo sguardo stralunato, atterrita dal rimbombare delle campane. L’incarnazione di questa debolezza, contrastando con la forza, del canto, una forza che non è potenza di suono, ma interna vibrazione, qualcosa di più e di meglio, genera un formidabile effetto: dipinge l'eroe e il suo coraggio.
Bruson va al cuore della drammaturgia di Verdi che affida proprio al baritono il compito di rappresentare il conflitto tra umanità e potere, tra affetto e legge, tra legge e giustizia.
Giancarlo Landini
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