Una “Madame Bovary russa”, una donna romantica che non riesce a sopportare l'oppressione di un ambiente ostile, così la critica musicale si esprime nel descriverci in sintesi l'opera.
È lo stesso Janàcek a rielaborare il dramma “Groza” (l’uragano) di Ostrovskij e a scrivere il libretto dalla prima stesura in cèco di Cervinka, in modo da illuminare il personaggio principale con tutta la dolcezza, la rassegnazione, la debolezza di un animo troppo fragile e sognatore per sopravvivere nella soffocante provincia russa piccolo-borghese e mercantile di fine Ottocento.
La sintesi del testo originale concentra i tratti salienti del carattere di Kat'à, che virano bruscamente dalla fantasia al dolce ricordo della giovinezza spensierata, dalla religiosità mistica alle visioni spaventose, dagli incontri amorosi notturni alla vergogna e al senso di colpa per il peccato, relegando i protagonisti maschili a mera cornice sfuocata della storia.
La composizione musicale creata su misura sul testo, rispettando le inflessioni parlate della lingua cèca, realizza quello che giustamente viene definito come “realismo musicale” e genera, con la sua “melodicità declamatoria”, una flessibilità di temi e motivi che raggiunge lo scopo di costruire delle “istantanee dell'anima”.
Così la sgradevolezza dei personaggi “cattivi”: Marfa detta Kabanicha e Dikoj, è caratterizzata da estrema frammentarietà nell'accompagnamento, da spigolosità, da ritmi martellati e ostinati.
Ai canti popolari o a temi leggeri e civettuoli è affidata la descrizione dei giovani amanti: Kudrjàsch e Varvara.
Per Kàt'a Kabanovà, già nell'ouverture, vengono evocati i due motivi principali, il primo: un moderato espressivo accennato dagli archi gravi (inquietudine di Kàt’a) che dà inizio all'opera e il secondo: dolce e liricissimo, che ne descrive l'animo sensibile e gentile, ricorre variato continuamente nel corso dei tre atti.
Implacabile suona il tema del “destino”, spina nel fianco della povera protagonista, che sin dall'ouverture echeggia con tuba, tromboni e timpani e si riaffaccia nei punti nodali: alla partenza del marito Tichon (finale del secondo quadro del primo atto) come a ricordarci che l'assenza del marito provocherà il tradimento; durante il temporale (quadro primo del terzo atto) con Kàt'a a confessare la colpa davanti a tutti; nel finale dell'opera insieme al sommesso e calmo motivo ondulante del “respiro del Volga”, per affermare che il destino dell'uomo è già scritto ed inesorabile.
I flauti e il tremolo degli archi esprimono l'incanto e la trepidazione di Boris quando vede Kàt'a su una variazione del dolcissimo tema che la descrive.
I due intermezzi: l'uno tra il primo quadro e il secondo del primo atto esalta il contrasto tra il presto disperato e l'adagio desolato degli archi; l'altro tra il primo quadro e il secondo del secondo atto fustiga il perbenismo ossessionante di Kabanicha con una ritmica marcetta burlesca.
Nel breve preludio del secondo atto vengono anticipati i segni premonitori della tragedia con un inquieto disegno degli oboi in contrasto con l'asettica melodia dei flauti.
La “ballata “di Kudrjàsch è un allegro, ben scandito, in stile folcloristico brillante, quasi stravinskiano, che anticipa con magistrale trapasso la “notte d'estate” (il duetto d'amore tra Kàt'a e Boris). In questo intenso inno all'amore la viola li accompagna con una cullante ninnananna e si estingue in un dolcissimo sussurro.
Gli scrosci sferzanti della pioggia aprono il terzo atto e introducono direttamente la tragedia, dove lo scatenamento della tempesta ha qui le caratteristiche di un vero castigo divino.
Divengono strazianti le ossessive parole di Kàt'a che continua a ripetere tra sé e sé; “volevo dirti un'altra cosa” come in perpetua ricerca di un senso da dare alla propria vita deludente, alla vigilia della partenza dell'amato che non rivedrà mai più, grazie alle trombe dissonanti che sembrano volutamente sbeffeggiarla in maniera cattiva.
E un altro bel contrasto lo ascoltiamo alla fine quando il ritmico borborigmo del tema del “destino” si alterna al cinguettio idilliaco degli uccellini, che fanno da sfondo al suicidio di Kàt'a.
Lo spettacolo, che proviene da Anversa e ha già avuto un bellissimo successo alla Scala nel 2006, porta la firma del duo Carsen-Kimmoth, ripresa da Maria Lamont.
Il Volga “allaga” letteralmente il palcoscenico, solo e bastevole testimone delle tragedie degli uomini, con le donne vestite di bianco-immacolato che, all'inizio, coricate supine su assi semovibili sull'acqua, ricordano tutte le donne affogate per amore.
L'acqua come vita, come scorrere inesorabile del tempo, come ritorno alla purezza del ricordo, come lavacro in cui annegare il dolore del vissuto, come presenza opprimente, metafora della società perbenista ed eccessivamente timorata di Dio da stravolgere con i sensi di colpa le anime belle e sensibili.
Lo spettacolo è fatto di sottrazioni, nulla in scena, se non il riflesso dell’acqua, il gioco splendido delle luci, le passerelle-pedane (isole) che permettono di concentrarsi sulle cose importanti e sui gesti dei protagonisti: la sofferenza della donne che si sentono escluse, il bisogno di sentimenti veri, di tenerezza, il ruolo invasivo delle malelingue, il menefreghismo, le debolezze e l'opportunismo dei maschi, la cattiveria e l'ipocrisia umana.
Il duetto finale tra Kàt'a e Boris li vede lontani su queste passerelle, senza neanche l'illusione di un'ultima tenerezza e Kàt'a muore sdraiata nell'acqua a braccia distese, crocifissa come vittima sacrificale. Nulla può lenire il senso profondo di sconforto e di angoscia per questa ennesima vittima dell'egoismo.
Ugo Malasoma