Elektra
Tragedia in un atto di Hugo von Hoffmansthal
da Sofocle
Musica di Richard Strauss
Prima rappresentazione: Dresda, Königliches Opernhaus, 25 gennaio 1909
Sommario:
Analisi
Trama
Qualche cenno di storia dell'interpretazione
Le edizioni discografiche da avere assolutamente
ELETTRA – un’altra donna che balla
La lucidità, non la vaga indeterminatezza, è la vera atmosfera della creazione artistica (H. von Hoffmansthal a Strauss, 1916)
Hλέκτρα (pronuncia: Eléktra), in dorico, si dovrebbe scrivere Aλεκτρα (pronuncia: Alektra), che letteralmente significa “senza talamo nuziale”. In questo concetto, volendo, ci sarebbe già la spiegazione di molta parte di un carattere di una donna di per se stessa votata alla vendetta pura, che ad essa sacrifica la speranza di una felicità domestica. Nel momento in cui Hoffmansthal produce la propria omonima tragedia (1903), è appena uscita l’ Interpretazione dei sogni di Freud che, come noto, correla strettamente l’isteria alla sessualità dell’inconscio: il drammaturgo ha quindi gioco facile nel chiudere – per così dire – il cerchio e nel proporre una simbologia cnisin troppo facilmente si collega alla grande moda del suo tempo. Strauss è affascinato dalla storia di un’altra donna che balla, subito dopo Salomé che aveva danzato per ottenere la testa di Jokanaan., e non esita a contattare il poeta con il quale avvierà una collaborazione che si svilupperà per 6 opere. Eppure, paradossalmente, le perplessità del compositore sono inizialmente proprio legate al soggetto che, per la sua sensibilità, assomiglia anche troppo a Salomé. Oggi, col senno di poi, diremo che la somiglianza col primo grande capolavoro riguarda essenzialmente il grumo psicotico quasi morboso che si stende su entrambe le vicende, in realtà diversissime come tematiche, come sviluppo narrativo e come conseguenze. In una lettera del fitto carteggio fra i due artisti, il drammaturgo tranquillizzerà l’apprensivo compositore: “Mi sembra che la paletta di colori sia sostanzialmente differente fra un soggetto e l’altro: in Salomé una colata di porpora e violetto sotto un’aria carica di tempesta; in Elektra, al contrario, un melange di notte e di luce, di nero e di chiarore”. Forse furono proprio queste le parole che convinsero Strauss ad iniziare la composizione che ebbe il proprio battesimo a Dresda il 25 gennaio 1909, sotto la direzione di Ernst von Schuch. Protagoniste erano tre splendide cantanti: Annie Krull (Elektra), Margarethe Siems (Chrystohemis) e Ernestine Schumann.Heink (Klythaemnestra). La saga della guerra di Troia, fissata nell’omerica Iliade, fu seguita dalle altre saghe dei νòστοι, cioè i “ritorni” degli eroi a casa. Due ritorni, in particolare, ci sono molto noti: quello di Ulisse, le cui disavventure alimentano il racconto dell’Odissea, e quello di Agamemnon, che torna a Micene con Cassandra assunta come concubina che – nel frattempo – gli ha dato due figli. Non è un caso, credo, se entrambi i sovrani trovano usurpatori; ma la situazione di Agamemnon è molto più lacerante, perché non può più contare sull’alleanza della moglie, che nel frattempo ha donato anima e corpo ad Aegisth. Entrambi uccidono Agamemnon, scavando il baratro nel quale precipiterà la mente già vacillante di Elettra. Il destino degli Atridi era già segnato dal sangue: il padre di Agamennone aveva ucciso i figli del fratello Tieste. Né va dimenticato che la vicenda era continuata male alla partenza della guerra di Troia, quando Agamennone aveva sacrificato una delle figlie, Ifigenia, per avere la benevolenza degli dèi in vista della spedizione. Nella saga dei νòστοι Elettra ha un ruolo molto più marginale, quello cioè di salvare quell’Oreste che poi, divenuto grande, si prenderà carico della vendetta uccidendo Egisto ma, soprattutto, la madre, attirandosi così la condanna delle Erinni che lo perseguiteranno ovunque vada. Delle tre versioni del mito di Elettra pervenuteci Hoffmansthal sceglie quella sofoclea, vale a dire cioè quella che centralizza nettamente sia il personaggio di Elettra (più di contorno nelle Coefore di Eschilo) che la sua furia vendicatrice in contrapposizione alla crudeltà materna e il cui finale meglio si presta a quella catarsi cui evidentemente il drammaturgo ambisce per risolvere definitivamente il problema del sangue. Nella concezione di Hoffmansthal, cresciuto alla scuola di Freud e di Breuer, le figure maschili scompaiono o assumono ruoli assolutamente di contorno: non a caso, infatti, non compare il quasi proverbiale Pilade, amico fraterno di Oreste e sostituito da un più anonimo tutore, e assume invece importanza fondamentale la sorella minore Crisotemide, che diventa il terzo vertice di un triangolo che, nella produzione straussiana, ricomparirà in altre occasioni. Si parla di un triangolo femminino, ma in realtà chi regge le fila dell’azione è proprio la protagonista, che sta in scena dall’inizio alla fine incanalando tutte le pulsioni con la sua presenza magnetica e catalizzatrice. È lei che blocca tutti in una specie di bozzolo velenoso: glielo rinfaccia anche Chrysothemis, che ambisce ad una vita purchessia, e invece è costretta a terra dalle catene che le ha messo la sorella. Anche le ancelle che pure la svillaneggiano, in realtà sono bloccate in una tragica impasse fortemente voluta dalla protagonista. E, naturalmente, più di tutte è bloccata Klythaemnestra, che è schiacciata dall’odio della figlia, di cui percepisce la portata ma contro cui non ha nessuna arma di sicuro effetto: quel “Schlachte, schlachte, schlachte” (trad. scanno, scanno, scanno) che ripete quasi con nonchalance all’inizio del suo colloquio con la figlia sembra un intercalare che ormai non fa più paura a nessuno, tanto meno alla stessa Elektra, anche lei quasi stordita dal sangue di cui gronda la reggia di Micene. Viene da chiedersi: c’è proprio bisogno di un’altra morte? È da lì che verrà la purificazione definitiva? Non è un caso che il quesito rimanga irrisolto alla fine dell’opera, allorquando la protagonista cade per terra al termine della propria folle danza. È morta ella stessa? È caduta al termine di una sorta di lancinante orgasmo che le ha fatto perdere i sensi? I registi che mettono in scena quest’opera, di solito, ci lasciano la sensazione che tutto sommato Elektra non regga la violenza dell’emozione della catarsi, e muoia: è una soluzione molto più rassicurante. Anche perché altrimenti, buon Dio!, dovremmo prendere coscienza con lei del matricidio. Che vita rimane ad Elektra? Una vita da sposa e madre come quella di Chrysothemis? Una vita fatta di quotidianità? Noi non lo crediamo possibile: in linea di massima, ci riesce difficile credere a qualunque lieto fine di un’opera lirica. L’opera, come si diceva, viene dominata dalla fortissima presenza della protagonista sin dai primi, tremendi 3 accordi nella tonalità di re minore: è il tema di Agamemnon, l’ossessione privata di Elektra che viene subito messa davanti all’ascoltatore, e che tornerà variamente esposta nell’arco di tutta l’opera. Una forte caratterizzazione orchestrale fatta di un leitmotiv che viene continuamente corroso, elaborato e quasi digerito da quella tensione spasmodica che è sempre più evidentemente l’anticamera dell’atonalità. Proprio su questo limite, improvvisamente, sbocciano come fiori malati gli accenni di valzer che compaiono già nel monologo di Elektra ma che diventeranno poi la cifra caratterizzante di Chrysothemis. Il tema del valzer, sempre molto amato da Strauss, non ha mai la rasserenante valenza che assume nel Rosenkavalier, ma viene anch’esso metabolizzato sino ad assumere la cadenza anapestica i cui germi sono già evidenti nel primo, grande monologo di Elektra. Ciò che dà il definitivo giro di vite alla tensione montante del dramma, in effetti, è proprio la comparsa della danza della protagonista. Ed è questo, forse, l’unico vero tratto in comune con Salome. Aegisth, nel suo breve ma incisivo intervento (esempio molto pratico di quanto sia necessario un grande artista anche per una parte cammeo), se ne accorge. Vede la figlia della sua amante (che a quel punto è già stata uccisa da Orest) che accenna passi di danza e che lui non capisce, tanto che le dice: “Was taumelst du so hin und her mit deinem Licht?” (trad: perché barcolli qua e là con la tua lampada?). Non si è reso conto, Aegisth, che con l’arrivo del vendicatore mandato dagli dèi Elektra è finalmente uscita dall’ombra e può accendere quella luce che sinora era stata inalberata dalla madre per spezzare la catena dell’oscurità in cui la figlia era come un ragno nella sua tela (“Lichter! Mehr Lichter!”, e cioè: luci, più luci! urla Klythaemnestra quando le portano la notizia della morte del figlio Orest). Dopo la conclusione del dramma, Elektra dirà alla sorella: “Io sono il fuoco della vita e la mia fiamma brucia l’oscurità del mondo”; e poi, subito dopo: “Seht ihr das Licht, das von mir ausgeht? (trad: vedete la luce che esce da me?): tali frasi, sul ritmo anapestico della danza sfrenata, segneranno di fatto l’uscita dal regno dell’ombra e la fine della missione di Elektra. Una presenza dunque, quella di Elektra, che vive di oscurità perenne, quell’ombra che le permette di fuggire il presente, di nascondersi, di sfumare e di essere vista il meno possibile. L’oscurità potrebbe permettere a Orest di tornare a casa e di mettere in pratica la vendetta. Nell’oscurità, infine, torneranno i due amanti assassini che nell’oscurità hanno perpetrato i loro orrori. Ma quell’oscurità così propizia alla violenza, avvolge anche la sessualità che pervade l’opera? Questo è un quesito interessante, allorché lo valutiamo con il particolare metro di giudizio offerto dal mare magnum della produzione psicanalitica di cui – come abbiamo visto – erano pieni i substrati culturali dell’epoca. Potrebbe essere abbastanza facile nascondere idealmente Elektra nel caldo e rassicurante alveo del buio che sembra fatto apposta per mimetizzare una sessualità sin troppo ambigua. È sempre stato facile vedere i germi di un’omosessualità ben più che in nuce nel secondo colloquio di Elektra con Chrysothemis, ma ci piace pensare più icasticamente ad Elektra come ad un archetipo asessuato, che prende su di sé tutti i mali del mondo, facendosi carico della purificazione che deve passare attraverso di lei come fine, e non come mezzo. Elektra come elemento di pura volontà, quindi, e come tale incapace di fare quelle azioni che lei si aspetta sempre dagli altri: valga come esempio definitivo quel delitto, che vuole fortissimamente ma che non è in grado di compiere, aspettando spasmodicamente che se ne assuma l’iniziativa il fratello oppure, in mancanza di lui, la sorella. Ed ecco quindi che il tentativo di seduzione perde qualunque tipo di valenza sessuale, per assumere invece lo scopo di convincere qualcun altro a fare ciò che lei non riesce a fare. Persino quando il fratello si materializza non riesce a ricordarsi di mettergli in mano quella scure di cui aveva quasi pensato di servirsi lei stessa! La mancanza di una precisa caratterizzazione sessuale risalta sin dall’inizio, allorquando Elektra intona sull’accordo di re minore la sua invocazione, che ha l’allure di una trenodia sacra. L’identificazione che appare prepotentemente all’animo dell’ascoltatore è quella con una sorta di rito sacro, di cui Elektra è sacerdotessa. Questa identificazione si stabilizza nel corso del secondo colloquio della protagonista con la sorella, allorquando pronuncia la terribile frase “Nun muss es hier von uns geschehn” (Trad. adesso è compito nostro farlo qui), in cui c’è tutta l’immanenza della missione sacra che non lascia nessun spazio a sentimenti contrastanti ed esitazioni. Eppure, a fronte di tutta la sacralità che promana da questi momenti governati – si direbbe – da un destino superiore che si serve di forze umane quasi ignare ma rigidamente consacrate, esiste un momento di cesura netta: è quando nel colloquio col fratello riconosciuto Elektra dice: “Credo di essere stata bella: allorquando spegnevo la lampada, davanti allo specchio, io lo sentivo nel mio corpo in un casto fremito. Io sentivo il freddo raggio della luna immergersi nella bianca nudità del mio corpo, e davanti ai miei capelli gli uomini trasalivano. Comprendi, fratello? Tutto quello che sono stato, io non lo sono più”. Un momento, un solo momento in cui questa splendida sacerdotessa si ricorda di essere stata una donna. Questo dovrebbe farci riflettere: forse la libertà non è l’estasi del sacrificio imminente, ma il poter riprendere a danzare e, forse, tornare ad essere donna. Si diceva che rimaniamo perplessi davanti alle indicazioni di Hoffmansthal circa la fine della protagonista, che stramazza a terra dopo la sua danza furiosa. Vuol forse dire che muore, o che semplicemente perde i sensi per la troppa gioia? Non ci è dato saperlo con sicurezza, ma il compimento della catarsi deve necessariamente passare attraverso la morte di Elektra. Come già sopra detto, semplicemente ci è impossibile immaginare una serena vita familiare per lei. Poco prima aveva pronunciato la madre di tutte le frasi d’amore: “Amore uccide! Ma nessuno muore che non abbia conosciuto l’amore!”. Dopo tale affermazione siamo convinti che Elektra non possa far altro che morire, ma nel Regno dell’Ambiguità e del Non Detto ci accontentiamo di contemplare una donna troppo stanca, caduta a terra, esanime dopo il compimento della propria missione, priva di gioia e di dolore. Quella terra grondante di sangue che chiama dal cielo tutte le stelle.
La reggia di Micene. Agamemnon, tornato dalla guerra di Troia, è stato ucciso dalla moglie Klythaemnestra e dal suo amante Aegisth. Dei tre figli della coppia reale, Orest era stato allontanato dalla reggia al tempo dell’omicidio del padre; Chrysothemis cerca disperatamente di rifarsi una vita; ed Elektra vive nell’angoscioso ricordo del padre, emarginata da tutti, covando propositi di vendetta. All’apertura del sipario cinque serve del palazzo parlano fra di loro di Elektra: è l’ora in cui la ragazza lamenta da sola la perdita del padre. Solo una ragazza, la più giovane, la difende; ma è picchiata dalle altre. Appare Elektra, e inizia il suo lamento quasi rituale che inizia con la solennità di una sacerdotessa, invocando il suo nome e ricordando il momento in cui è stato ucciso nel bagno dalla coppia di amanti adulteri. Aspetta il momento della vendetta, in cui i due amanti saranno uccisi, e i tre figli danzeranno sulla tomba del padre. Al termine del suo lamento compare Chrysothemis, che rivela ad Elektra che la madre ha paura di lei e che ha intenzione col suo amante di rinchiuderla in una torre. Chrysothemis non può più sopportare questa tensione continua cui è costretta dalla caparbietà della sorella. Ha paura di diventare troppo vecchia prima di riuscire a diventare madre. Elektra disprezza la sorella e le ordina di rientrare nel palazzo quando un rumore fa venire in mente a Chrysothemis il motivo per cui aveva cercato la sorella: la loro madre ha avuto un incubo. Secondo le serve, Klythaemnestra avrebbe sognato Orest e avrebbe gridato durante il sonno. La supplica di non provocare per l’ennesima volta la madre, ma Elektra, per tutta risposta, freme dal desiderio di trovarsi di fronte alla propria nemica. È il grandioso momento del dialogo fra madre e figlia. Klithaemnestra è dapprima diffidente, ma viene quasi convinta dagli accenti ipocriti della figlia, e le racconta di aver avuto un incubo. Ormai questi incubi sono frequenti, e devono finire. Cosa suggerisce Elektra? Un sacrificio? Inizia qui un gioco di allusioni su chi debba essere sacrificato: per la Regina, una vittima in più non ha importanza. È disposta a tutto per far finire l’angoscia. Ma qui scatta Elektra, nella sua terrificante invettiva: sarà la nuca della madre che sanguinerà, quando il cacciatore le staccherà la testa: allora, una volta che l’ascia sarà calata, Klythaemnestra non sognerà più. Al parossismo della violenza di Elektra e del terrore di Klythaemnestra, giunge una serva che parla all’orecchio della Regina: la sua espressione terrorizzata diventa un rictus di orrido trionfo, mentre urla di far accendere le luci del palazzo. Elektra si chiede sgomenta cosa possa avere scatenato il trionfo della Regina. La risposta non si fa attendere. Arriva Chrysothemis piangente: Orest è morto. Elektra non riesce a crederci, ma poi si rassegna: se il fratello è morto, toccherà a loro due portare a termine il compito. Chrysothemis si ritira, spaventata: Elektra cerca invano di blandirla ricorrendo anche ad una sottile seduzione, ma è tutto inutile. La sorella scappa e, una volta di più, si ritrova sola. Improvvisamente si ritrova dietro di sé uno straniero, che le chiede se sia una delle serve del palazzo. Durante il dialogo, Elektra apprende che lo straniero è uno dei due messaggeri che hanno portato la notizia della morte di Orest. Poco a poco cadono le resistenze: lo straniero apprende che la donna di fronte a lui è di sangue reale. I servi che si avvicinano e riconoscono nello straniero Orest fanno cadere le barriere di Elektra che cade a terra, sconvolta dall’emozione. La scena fra i due fratelli, intensamente lirica, è interrotta dal precettore di Orest che gli ricorda il carattere sacro della sua missione. La casa è deserta, e la Regina è da sola; i due uomini rientrano nel palazzo. Nel silenzio teso ed angosciante che segue risuona il grido della madre, uccisa. Arriva Aegisth, che sorprende Elektra barcollante. Pensa che la ragazza stia male, ma lei amabilmente gli rivela che sta ballando. Aegisth è sorpreso della gentilezza dei modi di Elektra, e rientra nel palazzo. La reggia risuona quasi istantaneamente di un altro grido: la vendetta è finalmente compiuta. Elektra si scatena finalmente nella danza di fornte allo sguardo attonito della sorella, poi cade a terra, esanime.
Qualche cenno di storia dell'interpretazione
Dopo la prima rappresentazione di cui abbiamo già parlato, avvenuta a Dresda il 25 gennaio 1909, il successo si propagò rapidamente ma non in modo travolgente. Probabilmente la materia era troppo scottante per poter incontrare il favore incondizionato del pubblico. Il 25 marzo di quello stesso anno Elektra fu presentata a Vienna. Protagonista era Lucille Marcel, un’allieva di Jean De Reszké, che – a quanto ci riportano le cronache – risultò all’altezza dello straordinario compito. Più ancora di lei fece sensazione l’interpretazione di colei che assunse il ruolo di Klithaemnestra, vale a dire Anna Bahr-Mildenburg, grandissima interprete wagneriana che, nello stile, riprendeva la Schröder-Devrient. Nello stesso anno Elektra approdò in Italia, e segnatamente alla Scala di Milano. Protagonista fu la grandissima Salomea Kruscheniski, passata alla storia dell’interpretazione dell’opera come la protagonista della revisione di Butterfly dopo il fiasco. Cantante dotata di preziosa versatilità e di furore interpretativo, fu famosa per l’antagonismo con altre due grandissime dive di provenienza dell’Est europeo come Emmy Destinn e Maria Jeritza, quest’ultima di poco posteriore. Un’altra celebre antagonista fu quella Gemma Bellincioni che creò Salome al Regio di Torino proprio mentre lei, più o meno contemporaneamente, faceva lo stesso alla Scala. Il cast della rappresentazione (in italiano, ça va sans dire) era completato da altre presenze di notevole effetto come Eleonora De Cisneros (nella parte di Klithaemnestra), Linda Cannetti (Chrysothemis), Giulio Cirino (Orest) e Giuseppe Gaudenzi (Aegisth). Dirigeva Edoardo Vitale. Negli USA Elektra fu data (in francese!) per la prima volta nel 1910 nel Manhattan Opera House di Hammerstein, con un successo di stima. In Inghilterra, sempre nel 1910, l’opera fu diretta da Sir Thomas Beecham che cedette la bacchetta allo stesso Strauss nell’ultima rappresentazione, con comprensibile entusiasmo del pubblico. La rapida diffusione dell’opera, tradotta in varie lingue, fu inizialmente dovuta più all’entusiasmo degli addetti ai lavori, che non del pubblico. Fu questa, forse, la ragione per cui l’opera cadde provvisoriamente in un generico dimenticatoio prima di essere ripresa in considerazione a partire dall’inizio degli anni 30, con il contributo essenziale di un’interprete grandiosa come Rose Pauly, fortunatamente documentata in un live, sia pure di audio fortunoso. In quegli stessi anni, in Italia, alla Scala, ci fu il secondo ciclo di rappresentazioni, sempre in italiano, con la presenza carismatica di Giulia Tess. Da allora in avanti le fortune dell’opera non conoscono più soste, grazie anche ai contributi di alcune Artiste dal notevole carisma, come Christel Goltz, Inge Borkh, Astrid Varnay, Birgit Nilsson e via via tutte le altre sino alle più recenti come Eva Johansson, Janice Baird o Deborah Polaski; e, per stare al ruolo di Klythaemnestra, cantanti come Elena Nikolaidi, Blanche Thebom, Martha Mödl, Elisabeth Höngen, Jean Madeira per arrivare alle più recenti, come Waltraud Meier o Felicity Palmer, che ha assunto il ruolo nella produzione scaligera di questi giorni. Le linee interpretative sviluppate sin dall’inizio sono alquanto monotematiche, tendendo a privilegiare il grumo di violenza quasi psicotica che è facile intuire nel dipanarsi del dramma. Seguendo questi criteri, peraltro rassicuranti, è abbastanza facile trovare interpretazioni molto affidabili fra le quali è doveroso citare quanto meno la Borkh e la Varnay da un lato, e la Mödl, la Höngen e la straordinaria Resnik dall’altro. Val la pena di ricordare che alcune fra le interpreti sono passate dall’uno all’altro ruolo con risultati straordinari in entrambe le situazioni: è il caso, per esempio, della stessa Varnay, o della Rysanek che, addirittura, ha coperto tutti e tre i ruoli principali. Discorso a parte merita Jean Madeira, che compare in numerosi live e nell’incisione ufficiale di Bohm: la cantante non è propriamente un mezzosoprano, anzi sarebbe più correttamente da definire un falcon, ma certe intuizioni di fraseggio che tendono a dipingere una donna ancora giovane e conscia della propria straordinaria femminilità, saranno fatte proprie anche da altre epigone, fra le quali è doveroso citare la Dunn e la Meier. Il ruolo di Chrysothemis offre meno possibilità espressive, anche perché è forse il più stereotipato in un’opera come questa che sfugge ad ogni tentativo di definizione e di circoscrizione; tuttavia ci sentiremmo di segnalare come archetipiche almeno due interpretazioni straordinarie, quella cioè di Lisa Della Casa e quella di Cheryl Studer, nello straordinario live di Claudio Abbado. Quanto alla direzione, non è neanche a dire quanto abbiano dato la propria impronta personalità straordinarie che si sono volute confrontare con questa partitura così complessa. Il semplice accompagnamento, pur molto importante in quest’opera in cui l’orchestra martella ad un ritmo impressionante togliendo letteralmente il fiato ai cantanti, non sembra bastare allorquando ci troviamo di fronte alla visione organica di un Reiner, o alle sfaccettature klimtiane di un Karajan, o all’esasperazione torrida dei contrasti proposta dal grandissimo Mitropoulos, forse il più hitchkockiano di tutti. Come conclusione mi sentirei di proporre la traccia recentemente segnata da interpreti come Eva Johansson e Janice Baird, che tolgono molto al martellamento percussivo di un canto che si avvicina sempre paurosamente allo sprechgesang, rifugiandosi in oasi di stordimento quasi attonito dei sensi, come in contemplazione pressoché impotente di un destino che tutto governa e contro il quale non è possibile prendere posizione.
Le edizioni discografiche da possedere assolutamente
Le incisioni sono oltre 20, non tutte di livello superlativo. Alcune di esse però sono assolutamente da menzionare, se non per tutto l’insieme, almeno per alcuni elementi di interesse. Qualcuna delle seguenti appartiene alla ristretta cerchia dei capolavori
1937: Pauly, Szanthò, Boerner – Rodzinsky – Eklipse: edizione incompleta e di suono assolutamente evanescente, talvolta francamente inascoltabile. Ha tuttavia il merito non indifferente di proporre la grande Rose Pauly, cantante che getta letteralmente il cuore oltre l’ostacolo. Un ascolto ancora oggi illuminante
1952: Varnay, Höngen, Wegner – Reiner – Arlecchino (dal vivo): difficile reperimento per un’incisione assolutamente fondamentale con un’interprete entrata a buon diritto nella leggenda, forse nella sua migliore interpretazione. Il rigore esecutivo di Reiner è forse a tutt’oggi insuperato
1957: Borkh, Madeira, Della Casa – Mitropoulos – Orfeo (dal vivo): personalissimo come sempre il taglio interpretativo di Mitropoulos che sceglie di esacerbare i contrasti. Le interpreti a sua disposizione sono storiche nella più piena accezione del termine: la Borkh ha fatto di Elektra il “suo” personaggio per eccellenza, la Madeira è stata una grandissima Klythaemnestra – anche se di voce discutibile – e la Della Casa è la Chrysothemis di riferimento passato, presente e futuro
1960: Borkh, Madeira, Schech – Bohm – DGG: il grande direttore tedesco dà il suo taglio rigoroso, affidabile anche se – come sempre – non eccessivamente fantasioso. Le prime due protagoniste appaiono meno ispirate rispetto al live con Mitropoulos, la Schech non vale la Della Casa, ma questa è una splendida incisione in studio e si cominciano ad apprezzare in pieno i dettagli cromatici della partitura
1964: Varnay, Modl, Hillebrecht – Karajan – Orfeo (dal vivo): il grande direttore salisburghese dà la propria impronta in un’opera che misteriosamente non ha portato in sala d’incisione. Sonorità avvolgenti e lussuriose che sostengono due cantanti come la Varnay e la Mödl che decisamente ne avevano bisogno, in quel punto della loro carriera
1966-67: Nilsson, Resnik, Collier – Solti – Decca: l’edizione di assoluto riferimento, anche per la completezza. L’engineering audio è semplicemente splendido, e già solo per quello meriterebbe un ascolto più che riverente. Viene riaperto il taglio nell’invettiva di Elektra, solitamente effettuato per concedere un po’ di respiro alla protagonista ma che, in questo caso, di fiato ne ha da vendere. Birgit Nilsson assolutamente a suo agio in una parte particolarmente adatta alle sue corde, forse ancora più di quei ruoli wagneriani che l’hanno consacrata a gloria immortale. La Resnik si rifugia in un declamato non propriamente ortodosso, ma di grande impatto grazie anche agli effetti sonori che ne moltiplicano le potenzialità espressive
1989: Marton, Fassbaender, Studer – Abbado – regia di H. Kupfer – Pioneer (dal vivo): splendida la regia di Harry Kupfer, ricca di coups de thèatre. La scena è dominata da una statua di Agamemnon incombente sui destini dei protagonisti, che si erge a vero protagonista del dramma en absence. Grandissima direzione di un Abbado ispirato come forse non mai. Delle tre protagoniste, tutte al meglio dei rispettivi (non stratosferici) mezzi risalta soprattutto la Studer, qui colta in una delle sue prove più efficaci e salutata da un’autentica ovazione del pubblico delirante. Ripresa video di grandissimo impatto
1990: Marton, Lipovsek, Studer – Sawallisch – Emi: Marton e Studer meno efficaci che dal vivo, ma tuttavia ancora capaci di regalare discrete emozioni. La Lipovsek fornisce una prova all’insegna di un dignitoso professionismo ma, qui come altrove, non è interprete che si imponga alla memoria. Anche qui, per la seconda e – sinora – ultima volta nella discografia ufficiale, vengono riaperti tutti i tagli di tradizione, ma francamente non se ne sente la necessità. Direzione analitica ma priva di vero pathos
1995: Polaski, Meier, Marc – Barenboim – Teldec: la Polaski è una delle grandi interpreti contemporanee del ruolo, ma qui appare in lieve ancorché percettibile difficoltà, forse a causa di un momento di forma non eccelsa. Grandissima, viceversa, Waltraud Meier nel dipingere una regina affascinante e conscia della propria femminilità ancora fiorente. Debole la Marc. Splendida, una delle migliori, la direzione di un ispiratissimo Barenboim che dona una cantabilità affascinante al corrusco dramma straussiano
1995: Marc, Schwarz, Voigt – Sino poli – DGG: ci si aspettava francamente di più dal compianto direttore italiano, ma la sua interpretazione lascia alquanto freddini, forse anche a causa di un cast che è fra i meno efficaci della discografia ufficiale. Alessandra Marc, già debole come Chrysothemis, è una delle Elektre meno coinvolgenti di tutta la discografia. La Schwarz, more solito, svolge un compito corretto e sufficientemente analitico, ma dando l’impressione di contemplare l’azione, invece di parteciparvi. La Voigt sarebbe la migliore del terzetto, ma per modo di dire. Spicca invece qui Orest, interpretato da un trepidante Samuel Ramey
Pietro Bagnoli