Il 24 luglio 1921, esattamente cento anni fa, nasceva a Motta Sant’Anastasia in provincia di Catania, Giuseppe Di Stefano, uno dei più dotati, talentuosi, geniali e amati tenori della storia dell’opera lirica.
Cenni biografici
Nel 1927 la famiglia Di Stefano decide di emigrare a Milano in cerca di lavoro stabilendosi al numero 6 di via Meda. Il padre, ex carabiniere, apre con poca fortuna un negozio di calzoleria mentre la madre, con capacità e caparbietà, avvia una scuola di taglio e cucito ed un negozio di confezioni. È nel capoluogo meneghino che dall’età di sei anni cresce il giovane Pippo: in casa, con i genitori, parla in siciliano mentre fuori, con gli amici, parla il dialetto milanese così da evitarsi l’appellativo di terrone.
A 14 anni Di Stefano inizia a frequentare la chiesa di Santa Maria di Caravaggio distante 200 metri da casa. Inizia a fare il chierichetto ed a far parte del coro in cui gli viene affidato da solista anche qualche breve mottetto sacro. Rimane talmente coinvolto dall’ambiente religioso da desiderare d’entrare in Seminario e, nonostante il parere negativo della madre, ottiene l’ammissione. In realtà in Seminario rimane poco e con scarsi risultati scolastici. Tuttavia, durante la permanenza, ha l’occasione di partecipare a un’audizione per entrare a fare parte del coro del Duomo, attirato soprattutto dalle 5 lire che avrebbe guadagnato ogni domenica e che gli avrebbero consentito di aiutare la famiglia.
L’andamento dell’audizione va assolutamente raccontato. Pippo è in fila insieme agli altri candidati. Quando viene il suo turno, l’insegnante lo invita ad avvicinarsi al pianoforte ed è proprio in quel momento che si accorge di avere una gamba tremante e la lingua talmente secca da non riuscire a staccarla dal palato. Al momento dell’attacco la voce non esce per l’emozione. L’insegnante lo incoraggia: “Di Stefano, riprova”. Nulla, nessun suono esce dalla gola e, quasi piangendo, farfuglia: “ma la so, la canto sempre nel coro della mia chiesa”. Torna sconsolato al posto e si distrae immediatamente scherzando col compagno di banco. Dopo pochi istanti, l’insegnante accortosi della distrazione dell’allievo, nel bel mezzo dell’audizione di un altro ragazzo, tuona: “Di Stefano, prosegui tu”. Colto all’improvviso e quindi senza avere il tempo di pensarci ed emozionarsi, si alza di scatto e canta, con voce limpida e squillante, “Dimitte inanes”, la frase finale che con un acuto chiude il mottetto sacro. Tutti rimangono allibiti da questa inaspettata reazione e gli chiedono: “ma chi ti ha prestato questa voce?” Da quel giorno, finché rimase in Seminario, canterà nel coro del Duomo portando a casa parecchie 5 Lire.
In realtà in Seminario non ci rimane moltissimo: una ragazza carina che lavora con sua madre decide di insegnargli che i bambini non vengono portati dalla cicogna e lui non rimane insensibile alla sua bella e giovane insegnante. Quindi lascia il seminario e di lì a poco anche gli studi.
A 16 anni si trasferisce con la famiglia in via Maderno n. 2 dove conosce Danilo Fois, un ragazzo, all’epoca ventenne, studente di giurisprudenza e grandissimo melomane. Un incontro apparentemente casuale che, col senno di poi, sembra parte di un piano perfetto voluto appositamente da un’entità superiore, per creare uno dei massimi – probabilmente il massimo – dispensatori di emozioni che il mondo dell’opera abbia mai avuto.
Con Danilo Fois gioca spesso a carte con la regola che il vincente deve cantare qualcosa: Danilo cantava romanze d’opera in falsetto e Pippo le canzonette dell’epoca, in particolare quelle di Carlo Buti.
È durante una di queste partite che Danilo, convinto di aver vinto, inizia a cantare “La donna è mobile”. In realtà l’esito della partita cambia inaspettatamente e Di Stefano conclude improvvisamente la romanza emettendo un acuto talmente potente e squillante da farlo risuonare in tutto il condominio. L’amico, esperto di voci lo guarda sbalordito e gli dice: “Tu devi studiare canto”.
Da quel momento Danilo inizia a portarlo con sé alla Scala – ovviamente in loggione – ed a pagargli le prime lezioni di canto.
Tuttavia, sin dall’inizio, più che degli insegnanti, mostra un grande intuito – che insieme alla natura vocale fa parte del talento – nel saper trovare il suono migliore. Quando si esercitava bastava che Danilo gli dicesse: “perché canti così? Canta come l’altra volta.” Lui immediatamente modificava l’emissione finché l’amico gli sentenziava: “ecco, questo è un bel suono”.
L’opera lirica inizialmente non lo coinvolge molto anzi, gli sembra cosa piuttosto noiosa. Ore passate in loggione, magari in piedi, appeso in posizioni scomode, ad attendere l’acuto spettacolare di Giacomo Lauri Volpi. Questo finché una sera, sempre alla Scala, non ascolta Beniamino Gigli nel Poliuto e ne rimane folgorato. In quell’occasione dice al suo amico Danilo Fois: “Lauri Volpi ha senza dubbio una voce squillante ma quella di Beniamino mi commuove e mi accarezza l’orecchio”.
Nel 1938 a soli 17 anni, su spinta entusiastica del solito Danilo, Di Stefano si iscrive al suo primo concorso di canto per voci grezze a Milano, lo vince, e questo gli serve a convincere i genitori che probabilmente quella è la strada che il destino ha previsto per lui. Subito dopo vince un altro concorso, ancora più importante, a Firenze ma non gli assegnano la borsa di studio in quanto, per una stranezza del bando, non né ha diritto in quando non ha ancora compiuto i diciott’anni.
In compenso, frequentando uno dei tanti bar trattoria milanesi in cui alla sera si esibivano artisti a fine carriera, talvolta vecchie glorie cadute in disgrazia, alternandosi a giovani che avevano necessità di familiare col pubblico, viene ascoltato da due facoltosi abbonati scaligeri che, rimanendo colpiti dal giovane tenore, decidono di aiutarlo affinché possa dedicarsi solamente al canto; gli passano 150 Lire al mese, cifra più che sufficiente ad evitargli lavori – talvolta anche logoranti e pericolosi – ed a pagarsi le necessarie lezioni di canto. Grazie a questo atto di mecenatismo Di Stefano studia per quasi due anni da Adriano Torchio, artista del coro della Scala.
Per un’altra strana casualità verso la fine del 1940 viene condotto da un barbiere, amico di un suo parente, a casa di Luigi Montesanto – all’epoca celebre insegnante dopo un’importante carriera che l’aveva portato a cantare con tutti i più grandi artisti dei primi del ‘900, compreso Enrico Caruso – il quale, dopo averlo ascoltato ed essendone rimasto positivamente colpito lo accoglie come allievo. In realtà Pippo andrà a lezione da Montesanto solo un paio di mesi, il tempo necessario per apprendere i segreti del fraseggio, il significato del “recitar cantando”, il legato: insomma quegli strumenti che ancora gli mancavano ma necessari, al pari della voce, per affrontare una carriera.
Con l’inizio del secondo conflitto mondiale, il 6 gennaio 1941, non ancora ventenne, Di Stefano parte per il servizio militare in quel di Alessandria. Un periodo duro in cui la voce si rivela prezioso mezzo di scambio con gli altri commilitoni ma soprattutto viatico per entrare nelle grazie del Tenente Medico Giovanni Tartaglione, il quale lo porta con sé in infermeria con l’incarico di assistente medico ma soprattutto gli risparmia la partenza per il fronte russo, dicendogli: “Ho deciso che tu devi rimanere in Italia. Perché come soldato si ‘nu fetente ma come tenore, un giorno, sarai utile al nostro paese”.
Di Stefano non dimenticherà mai il gesto del tenente che, come è facile comprendere, fu persona assolutamente fondamentale per la sua vita e, di conseguenza, per la sua carriera. Tartaglione, come tanti altri soldati, perì nel corso di quella terribile campagna di Russia.
Nell’estate del 1943, quando ancora è di stanza ad Alessandria, ottiene una lunga licenza di convalescenza, torna a Milano, si inventa lo pseudonimo di Nino Florio e viene scritturato per cantare canzoni nell’avanspettacolo del cinema-teatro Ambrosiano arrivando a guadagnare 500 Lire a sera.
Vola, vola, vola. - incisione del 1945 effettuata come Nino Florio
Purtroppo, il proclama di Badoglio dell’8 settembre 1943 porta i soldati tedeschi a prendere possesso, fra le altre, anche della caserma di Alessandria da cui Di Stefano riesce a fuggire sino a raggiungere un campo di raccolta istituito a Faido in Svizzera. Anche in questa occasione sfoggiando l’unica arma a sua disposizione, ossia la voce, riesce a farsi notare cantando per i rifugiati. Inizialmente un caporale lo accompagna a fare un’audizione a Zurigo dal direttore del Teatro di Stato, il quale gli propone Traviata in tedesco accanto a Maria Cebotari. Inizia così a cantare sempre con maggiore frequenza finché viene liberato dal campo internati sotto la garanzia di Edoardo Moser direttore artistico di Radio Losanna. Sono di questo periodo i suoi debutti radiofonici nell’Elisir d’amore, Tabarro e La cambiale di matrimonio.
La radio contribuì a dargli una discreta notorietà tanto è vero che una signora svizzera gli propone di incidere delle romanze con accompagnamento di pianoforte. Quelle romanze ripubblicate anni dopo dalla EMI e che, ancora oggi, ci danno la possibilità di godere di una voce fresca, cristallina e sorprendentemente facile nell’emissione.
Terminata la guerra rientra a Milano dove, nel frattempo, è morto il padre e la madre è rimasta sola.
Decide quindi di tornare da Montesanto, cinque anni dopo le lezioni da cui apprese i fondamenti del recitar cantando, portando con sé i dischi registrati e i ritagli di giornale che documentavano le esperienze fatte in terra elvetica. Di lì a qualche mese Montesanto propone a Di Stefano di fargli da impresario e lo convince a firmare un contratto decennale. Un contratto che, se guardato dal mero punto di vista della suddivisione dei profitti, andrebbe considerato svantaggioso per l’artista, in realtà Montesanto si dimostra particolarmente efficace nell’introdurre Pippo nel mondo dell’opera che conta.
La carriera artistica
Il 20 aprile 1946, Pippo debutta nel ruolo di Des Grieux nella Manon di Massenet presso il Teatro Valli di Reggio Emilia. È questa la data di debutto ufficiale in un teatro d’opera di importante tradizione. Da quella Manon la carriera del tenore siculo-meneghino, sull’eco dei successi raccolti, si sviluppa molto velocemente su palcoscenici sempre più prestigiosi.
Nello stesso 1946 canta I pescatori di perle alla Fenice di Venezia, Rigoletto al Teatro Carlo Felice di Genova, ancora a Reggio Emilia L’amico Fritz, al Comunale di Bologna La Sonnambula, Manon di Massenet a Piacenza e a Ravenna; ancora al Teatro Dante Alighieri di Ravenna, La Traviata. Nei mesi di novembre e dicembre c’è anche il suo debutto in un grande teatro europeo: il Liceu di Barcellona lo scrittura per Manon, Sonnambula e Rigoletto. Nel gennaio 1947 debutta presso l’Opera di Roma con Sonnambula, Manon e Pescatori di perle; immediatamente dopo canta al Verdi di Trieste e debutta alla Scala con le celebri recite di Mignon che lo videro accanto alla grande Giulietta Simionato. Fu un susseguirsi di successi inarrestabili che lo videro nello stesso anno trionfare a Parma, La Coruña, Santander, Rio de Janeiro, Città del Messico, Torino.
Il 1948 lo vede conquistare i grandi palcoscenici del Nordamerica: Metropolitan di New York, Los Angeles, Dallas e Detroit. Da dicembre 1948 sino a marzo del 1949 canta esclusivamente al Metropolitan: Mignon, La traviata, Rigoletto, L’elisir d’amore, La bohème e un isolato Gianni Schicchi a Boston.
Durante questa permanenza americana sposa Maria Girolami, studentessa di canto italo-americana, dalla quale avrà tre figli: Giuseppe (1952), Luisa (1953-1975), Floria (1957).
Poi è la volta dei celebri successi di Città del Messico: La bohème, Mignon, Il barbiere di Siviglia, La Favorita, Werther e ancora Metropolitan, prima di tornare in Italia a luglio del 1950 per cantare L’elisir d’amore al San Carlo di Napoli e nel mese di agosto, Pescatori e Bohème all’Arena di Verona.
Potremmo riempire parecchie pagine di questo omaggio a Giuseppe Di Stefano se seguissimo la cronologia dei suoi successi che, ad onta dei suoi detrattori – questi non mancano mai per nessun grande artista –, proseguirà a ritmi impressionanti nei più importanti teatri del mondo sino a tutto il 1965 conclusosi alla Wiener Staatsoper affrontando Pagliacci, Un ballo in maschera, La traviata, La forza del destino, Madama Butterfly, Tosca cantate tutte nell’arco di due mesi.
Tuttavia, la carriera, seppure con minore frenesia, prosegue sino ai primi anni ‘70 in Germania ma soprattutto in Austria presso il Theater an der Wien, teatro di cui diventa star assoluta per il repertorio della vera e grande operetta; per intenderci, quella di Das Land des Lächelns che Di Stefano canta rigorosamente in tedesco.
Nell’aprile del 1972 canta per l’ultima volta alla Scala e saluta i sostenitori della sua città cantando Cavalleria rusticana e Pagliacci.
A parte qualche piccola parentesi gli anni ’70 lo vedranno impegnato esclusivamente in recital distribuiti nelle più importanti sale da concerto del mondo.
Una carriera, quella di Pippo, che si è sviluppata per oltre un trentennio a livelli altissimi.
La vocalità e la tecnica
Di Stefano si accostò all’opera ammirando Beniamino Gigli per la perfetta tecnica di emissione, ma soprattutto Tito Schipa per l’uso sapiente delle dinamiche, il fraseggio, lo scavo della parola e l’intelligenza interpretativa; insomma, quell’insieme di elementi che Di Stefano considerava necessari per poter parlare realmente di canto. Del resto, Gigli e Schipa, insieme a Pertile e pochi altri, furono i riferimenti di tanti tenori che mossero i primi passi a cavallo del secondo conflitto mondiale. Naturalmente altri giovani tenori avranno avuto riferimenti differenti: magari Giacomo Lauri-Volpi, Hipòlito Lázaro o Giovanni Martinelli ma Di Stefano non si è mai entusiasmato per quei cantanti che puntavano tutto sulla voce; per lui il canto era altra cosa.
Il materiale vocale di GdS era particolarmente pregiato: il timbro inconfondibile e bellissimo era, in virtù della sua particolare sensibilità interpretativa, ora reso morbidissimo, vellutato o, all’occorrenza, squillante, solare e lucentissimo. Nell’ampia tavolozza di colori utilizzata da Di Stefano non vi era una sola nota che poteva dirsi meno bella di altre.
Se ascoltiamo le prime registrazioni degli anni ’40 percepiamo subito l’estrema facilità di emissione resa possibile da una tecnica che rispettava totalmente la sua natura: l’utilizzo del fiato è magistrale, ogni nota suona libera ed esente da forzature, tutto pare in eccellente equilibrio. Una tale perfezione nella produzione del suono da non lasciar percepire nulla di tutto ciò che è tecnico: maschera, passaggio, ecc. In effetti il grande Gigli diceva che la tecnica la si percepisce solamente in chi non canta bene.
Indubbiamente Di Stefano ha tracciato un solco talmente profondo nel mondo dell’opera da non poter essere ignorato da tutti quegli artisti lirici che hanno iniziato a cantare dagli anni ’60 in avanti. Insomma, esiste un a.P. e un d.P: avanti Pippo e dopo Pippo.
Pensate che stia esagerando? Andate con la mente al canto sorvegliatissimo ed elegante di Schipa. Bene. A quello stile perfetto, il Di Stefano che possiamo ascoltare nelle registrazioni effettuate sino alla fine degli anni ’50, aggiunge la modernità derivante dall’avere dentro di sé due artisti in uno: Pippo e Nino Florio, il tenore e lo chansonnier. Ed è proprio il suo essere stato cantante, ancor prima di tenore, il grande valore aggiunto che ha reso Di Stefano un artista unico e di portata storica. Infatti, prima di lui – ma probabilmente nemmeno dopo – nessun tenore ha mai avuto la sua capacità di rendere viva la parola, come se il testo fosse incastonato nel suono della sua voce. Sembrava quasi che parlasse dando un po’ più di fiato ed il suono uscisse portandosi in groppa le parole. Di Stefano riusciva a rendere vere le emozioni, le sensazioni, il furore, la disperazione, la passione, la tenerezza, l’ardore, l’odio e ovviamente l’amore presenti in ogni parola. Come ci riusciva? Credo che nessuno sia in grado di rispondere a questa domanda. Probabilmente grazie ad una serie di qualità che il suo talento è riuscito a far convergere in un unico punto.
Chi dice che Di Stefano cantava senza avere tecnica, probabilmente non sa quel che dice. Pippo, come ha più volte affermato, non credeva nella costruzione tecnica a cura di un insegnante. Secondo lui cantanti si nasce. Poi certamente studiando ci si raffina ma uno le basi ce le deve già avere dentro di sé. Gli facevano compassione quegli studenti di canto che attendevano con pedissequa costanza che l’insegnante desse loro tutte le indicazioni per emettere correttamente la voce. In realtà Di Stefano non solo aveva la tecnica ma era assolutamente perfetta ed aveva capito benissimo come assecondarla senza drogarla con nozioni esterne che avrebbero potuto nuocerle. Del resto senza tecnica non è umanamente possibile cantare come cantava Pippo.
"E lucevan le stelle" con bis - 1952 a Città del Messico
Ascoltiamo l’addio alla vita di Cavaradossi nella registrazione di Città del Messico del 1952, per altro bissata dopo due minuti trascorsi col pubblico che urla come impazzito: senza una tecnica superlativa non si smorzano, dalla voce piena all’autentica mezzavoce, senza cambiare di un millimetro posizione e colore, le parole “disciogliea dai veli”. Questo dovrebbe entrare nella zucca di tutti i suoi detrattori. Ma probabilmente costoro sono le stesse persone che sono convinte che per descrivere la grandezza di Di Stefano sia necessario sottolineare che fu il tenore di Maria Callas. Scusatemi il tono polemico ma di sentire questa cazzata non ne posso più: senza nulla togliere alla celebre artista citata, ma l’inestimabile valore di Pippo è dato esclusivamente dalla sua bravura artistica e non ha certo bisogno di nominare partner prestigiose per certificarlo. Il bollino blu se l’era già guadagnato dopo la Mignon alla Scala nel 1946. Basti ascoltare “Adieu, Mignon” – cantata in italiano come era prassi dell’epoca – e fare attenzione ai colori, alle dinamiche ed al legato che utilizza anche nei momenti più complicati, ad esempio sulla scomoda salita al La naturale posto sulla a di “vegliar” che Di Stefano lega con la parola precedente infondendo così alla frase “saprò su te vegliar” un pathos e un’intensità inusuali. Per capire la differenza provate ad ascoltare la stessa aria cantata, ovviamente benissimo, da Tito Schipa, il quale prende fiato dopo vegliar, prima di affrontare il La, spezzando la frase e privandola così di quella colloquialità che rende veri i sentimenti di Wilhelm.
Mignon: "Addio, Mignon" - registrazione del 1947 con i complessi della Scala
Se proprio si vuole criticare Di Stefano, lo si faccia puntando il dito su un solfeggio non sempre irreprensibile ed eventualmente per aver deciso di assecondare il suo temperamento andando su opere del repertorio drammatico che alla lunga compromisero gli equilibri perfetti di cui ho parlato in precedenza. Opere come Turandot, Aida, Chénier, Pagliacci lo costrinsero a ricercare maggiore ampiezza e volume a scapito dell’estensione vocale, dell’omogeneità e della duttilità vocale. Va detto che anche in questo repertorio Di Stefano riusciva a trovare il modo di emozionare e scaldare gli animi: certamente si possono notare delle aperture un po’ eccessive sugli estremi acuti ma la verità che si percepisce nel suo dire la frase e la sensibilità interpretativa con cui affrontava i momenti a lui più congeniali hanno fatto si che il pubblico continuasse ad amarlo sino al suo ultimo concerto… ma anche dopo e per sempre.
Se invece volete godere dell’arte inarrivabile del grande Pippo, non mancate di ascoltare le incisioni effettuate nel 1944 in Svizzera, ma anche tutto ciò che fece parte del suo repertorio nei suoi primi dieci/quindici anni di carriera: Mignon, Manon, Rigoletto, Traviata, Bohème, Favorita, Puritani, Lucia di Lammermoor ma anche Trovatore, Un ballo in maschera, La forza del destino, L’elisir d’amore, Tosca.
La simpatia, l’umanità e la semplicità nel porsi nei confronti di tutti hanno certamente avuto il loro peso nell’arco della carriera ma anche della vita Di Stefano. Personalmente non dimenticherò mai quando, dopo un concerto tenuto nell’auditorium dell’Ospedale S.Raffaele – insieme alla sua seconda moglie Monika Curth– e voluto dallo stesso Pippo per ringraziare i medici che avevano avuto in cura sua madre – credo fosse il 1991–, volle regalarmi un suo disco da poco pubblicato ed intitolato “Dedicato a te…mamma”: lo scartò, sulla copertina mi scrisse la dedica e me lo diede dicendomi: “toh, mai cantà inscì ben”. Il disco contiene alcune delle canzoni registrate negli anni ’40 con lo pseudonimo di Nino Florio.
Una vita ricca di aneddoti spassosi, di esperienze belle, di successi strepitosi, ma anche di eventi dolorosi – come la perdita della figlia Luisa di soli vent’anni a causa di una leucemia – : un autentico romanzo che sarebbe bellissimo poter raccontare in maniera approfondita ma che non ci è possibile per ovvie ragioni di leggibilità dell’articolo. Tuttavia, consigliamo vivamente ai nostri lettori di procurarsi e leggere la sua autobiografia intitolata “L’arte del canto” edita da Rusconi nel maggio 1989. Un libro in cui Pippo si racconta con la massima semplicità e schiettezza.
Giuseppe Di Stefano muore il 3 marzo 2008 per le conseguenze di una feroce aggressione subita nella sua casa di Diani in Kenia. Durante la cerimonia funebre, nella piccola chiesa di Santa Maria Hoè, paese del lecchese dove viveva, riecheggiò l'Ingemisco tratto dalla Messa da Requiem che cantò alla Carnegie Hall di New York nel gennaio 1951 diretto da Arturo Toscanini: anche il grande direttore parmigiano rimase folgorato dalla voce e dalla personalità dell'artista nato a Motta Sant'Anastasia.
Grazie di essere esistito Pippo e buon centenario.
Danilo Boaretto