Werther | Benjamin Bernheim |
Charlotte | Rihab Chaieb |
Sophie | Sandra Hamaoui |
Albert | Audun Iversen |
Le Bailli | Valeriy Murga |
Schmidt | Martin Zysset |
Johann | Andrew Moore |
Bruehlmann | Jonas Jud |
Kaetchen | Flavia Stricker |
Direttore | Giedrė Šlekytė |
Regia | Tatjana Gürbaca |
Drammaturgia | Claus Spahn |
Scene e disegno luci | Klaus Grünberg |
Costumi | Silke Willrett |
Maestro del Coro | Ernst Raffelsberger |
Philarmonia Zürich, Kinderchor und SoprAlti der Oper Zürich |
Fulgido esempio del teatro lirico francese, pur essendo spesso svilito quale zuccheroso adattamento del romanzo epistolare di Goethe del quale tra l’altro ben poco conserva se non le linee generali, Werther già cronologicamente definisce la sua natura in quanto si colloca a metà strada tra il Faust di Gounod e Pelléas et Mélisande di Debussy. C’è nel drame lyrique di Massenet un’indubbia evoluzione verso quel teatro lirico di parola che fa del declamato, e di ciò che in Puccini sarebbe diventato il canto di conversazione, la cifra stilistica dalla quale partire nell’inscenarne la vicenda.
Qui non ci sono eroi, divinità o classi dominanti che si scontrano, semplicemente c’è il dramma borghese di una famiglia immersa nella piccola provincia tedesca la cui tranquilla superficie viene increspata dall’arrivo di un personaggio imbevuto di spleen.
L’outsider che tutto osserva da fuori e che turba gli animi più sensibili è di certo un topos non nuovo che ricorre frequentemente lungo tutto l’arco della cultura occidentale, dunque è quasi scontato che anche l’ambientazione di Werther possa essere attualizzata o quanto meno calata in un’epoca lontana da quella descritta nel libretto. Lo spettacolo visto all’Opernhaus di Zurigo, nato nel 2017 e della cui ripresa si riferisce, sceglie dunque la cifra della atemporalità per ribadire la banalità delle convenzioni sociali e la difficoltà ad accettare consuetudini che soffocano i più sinceri empiti e slanci.
Tatjana Gürbaca, coadiuvata dalla drammaturgia di Claus Spahn, concepisce una realtà claustrofobica (di per sé niente di particolarmente originale) attraverso la scena fissa ideata da Klaus Grünberg. Il palcoscenico dell’Opernhaus è infatti occupato da una sorta di camera acustica composta da pannelli in legno che celano ante di armadi o credenze, finestre e aperture verso il mondo esterno. Non per nulla Werther entra in scena dalla ribalta, all’esterno della stessa stanza nella quale si susseguono gli avvenimenti. Lo spazio angusto, tra l’altro concepito per il piccolo scrigno meraviglioso quale è il teatro zurighese, non impedisce nondimeno l’azione dei personaggi, l’ingresso dei figuranti che suggeriscono l’idea degli invitati alla festa alla quale parteciperanno Werther e Charlotte, oppure ancora la tenera apparizione del pastore con la moglie della quale si festeggiano le nozze d’oro. La drammaturgia è dunque rispettosa del libretto sia pure nei costumi vagamente anni ’60 di Carl-Christian Andresen.
C’è inoltre una cura particolare che la regista ha riservato sia alla protagonista che alla sorella minore Sophie, l’una non più piagnucolosa moglie borghese intenta a leggere e rileggere le lettere di Werther e l’altra non più petulante fanciulla. Qui nelle due presenze femminili è percepibile l’anelito verso un qualcosa che vada oltre un’esistenza incanalata in legami familiari stringenti, così come l’insipido Albert è invece uomo del ceto medio che all’educazione perbenista contrappone la rabbia per l’amore tradito. Estremamente poetico è poi il quarto atto nel quale è il protagonista morente a rientrare nella stanza mentre le ultime frasi musicali si accompagnano al disvelamento di un cielo stellato attraverso l’apertura dello spazio scenico. La morte è così vista come liberazione dalle costrizioni di una società bigotta mentre un’anziana coppia teneramente abbracciata in palcoscenico ci fa intravedere ciò che sarebbe stato dei giovani amanti: il cappello piumato indossato da Werther durante la festa dell’atto primo sul capo incanutito dell’uomo e la coroncina luccicante di Charlotte su quello di lei.
La sospensione dell’incredulità ci presenta il protagonista in piedi, trasfigurato mentre canta della sua sepoltura che, poiché suicida, avverrà solo fuori dal cimitero, nessuna enfasi lacrimevole ma semplicemente ciò che sarebbe potuto essere e che non sarà.
In sintonia con la visione di dramma borghese scelta dalla regia, la concertazione di Giedrė Šlekytė sceglie una narrazione fortemente drammatica che ne asseconda l’impostazione scenica. La talentuosa direttrice lituana privilegia i turgori di un’orchestra che la segue nelle improvvise accensioni ma è anche capace di imprimere delicate smorzature, cangianti come cangianti sono gli stati d’animo dei due protagonisti. Dalla precisione dei corni alla perfetta intonazione del sassofono nell’aria delle lacrime fino alla speciale aura di disfacimento legata alla morte di Werther, la Philarmonie zurighese mette in mostra compattezza e grande capacità narrativa enfatizzata dalla perfetta acustica della sala.
La Šlekytė ha l’innata capacità di sottolineare i moti dell’anima prescritti in partitura senza mai rifugiarsi in sonorità zuccherose. Basta ascoltare l’interludio del chiaro di luna tutto teso a sottolineare la scoperta di una comunanza di intenti, o ancora l’entr’acte che collega i due atti finali, turbinoso e filtrato attraverso la figura spettrale di Charlotte alla ribalta. Non mancano anche le oasi di disperata malinconia in special modo nell’atto terzo nel quale si consuma il doloroso rimpianto della protagonista per la rinuncia all’amore appena sfiorato, e poi la tenerezza strisciante mentre si abbandona alla lettura della lettera.
La tensione drammatica monta attraverso la concertazione vibrante della Šlekytė fin quasi a stritolare i due protagonisti e anche le due principali parti di fianco. Difficile infatti ascoltare un Albert così ben cantato e disilluso come nel caso di Audun Iversen, tra l’altro unico superstite del cast che debuttò nella produzione del 2017. Lo stesso si può dire per la Sophie di Sandra Hamoui, qui giovane donna volitiva che dell’ottima pasta vocale e della capacità seduttiva in embrione fa sua caratteristica interpretativa.
Ma è nell’affiatamento fra Benjamin Bernheim e Rihab Chaieb che lo spettacolo esprime le migliori potenzialità. Lei è una splendida Charlotte che fa della tessitura anfibia un mezzo di grande espressività. La sua è una vocalità rigogliosa a tutte le altezze, il che le consente di coprire i gravi così come gli acuti previsti con autorevolezza alternando la dolcezza verso i fratelli con le pulsioni erotiche represse scatenate dall’incontro con Werther. La sua è una donna di grande ricchezza interiore sconfitta dalle sue stesse emozioni più che dai rigori di una società bigotta. Non è forse la trepidante eroina che ci aspettiamo, ma il fraseggio è rovente nel “suo” atto, il terzo, mentre la tenerezza delle mezze voci nel duetto del chiaro di luna fa il paio con le prodigiose dinamiche di Benjamin Bernheim.
Il tenore, cresciuto nello sconfinato vivaio dell’Opernhaus, conferma come quello francese sia il suo repertorio d’elezione, tale è l’idiomaticità e la totale padronanza del canto di conversazione che di Massenet è chiave interpretativa imprescindibile.
Ieratico nell’accostarsi alla casa del Bailli, sin dalla prima frase caratterizza il giovane outsider aprendosi ad una invocazione alla natura di estatica bellezza nella quale le infinite sfumature denotano una psicologia labile e in cerca di certezze. Controllo assoluto del fiato, musicalità impeccabile e linea immacolata sono solo alcune delle caratteristiche che Bernheim mette al servizio di un personaggio perennemente in bilico tra espressività esangue e impeto eccessivo. C’è un processo di progressivo sgretolamento della capacità di raziocinio in questo Werther che pure è sorretto da tecnica di ferro e canto sempre sul fiato. Solo che non c’è manierismo o abbandono scomposto in pagine quali il "Lied d’Ossian" o nella splendida scena finale, ma solo la dimostrazione di come il tenore abbia scelto di riempire un ruolo così arduo e inafferrabile con quella certa sensiblerie tipicamente francese del tardo Ottocento. Dopo tutto questo è il Werther di Massenet, non di Goethe.
A completare una serata esaltante caratterizzata dal trionfo personale di Bernheim e da lunghi e calorosi applausi per l’intero cast e per la concertazione vibrante di Giedrė Šlekytė, non si può non ribadire la vitalità del teatro Zurighese. Il cartellone è infatti ricchissimo e variegato e attira sempre e comunque un pubblico di giovani che, ahimè, sembrano ormai disertare molti dei teatri italiani.
La recensione si riferisce alla recita del 31 Gennaio 2024.
Caterina De Simone