Bajazet | Renato Dolcini |
Tamerlano | Sonia Prina |
Asteria | Loriana Castellano |
Andronico | Raffaele Pe |
Irene | Lucia Cirillo |
Idaspe | Valeria La Grotta |
Direttore | Federico Maria Sardelli |
Regia | Fabio Ceresa |
Scene | Massimo Checchetto |
Costumi | Giuseppe Palella |
Light designer | Fabio Barettin |
Video designer | Sergio Metalli |
Orchestra del Teatro La Fenice |
Prosegue con Il Bajazet di Antonio Vivaldi il progetto dedicato alla riscoperta delle opere del Prete Rosso, inaugurato nel 2018 al Teatro Malibran. Proprio qui, diciassette anni fa, era avvenuta la prima rappresentazione in tempi moderni dell’opera.
Com’è noto, il titolo rappresentato è un pasticcio, una commistione di più arie espunte da opere di autori diversi (nel caso in questione, Riccardo Broschi, Geminiano Giacomelli, Johann Adolf Hasse e lo stesso Vivaldi) innestate nel libretto approntato da Agostino Piovene: non c’è quindi coerenza drammaturgica né musicale, se non quella tutta arbitraria di Vivaldi che ha selezionato personalmente le arie da affidare a ciascun ruolo. Bajazet, nell’accezione comune, altro non è che un prodotto di intrattenimento nonché banco di prova per gli interpreti vista la complessità dei brani.
Fabio Ceresa tiene conto di queste basi storico-musicali nel suo progetto di regia: i sei solisti sono schierati in proscenio con leggii e sedie, come se fossero impegnati in una prova all’italiana. Appena terminano i recitativi che li vedono dialogare tra di loro, dopo un rapido cambio di costume salgono su un piccolo palchetto che ricorda lo schermo di una televisione (Ceresa cita espressamente il noto programma pubblicitario Carosello) e interpretano le loro arie, i “siparietti” citati nel programma di sala.
Ogni brano è quindi autoconclusivo, uno spettacolo a sé stante dentro lo spettacolo che non tiene conto della vicenda del libretto: solo l’arabeggiante Castello di Sammezzano, che fa da sfondo della prima aria di Bajazet “Del destin non dee lagnarsi”, paga il debito alla matrice “turchesca” del testo, così come “Qual guerriero in campo armato”, cavallo di battaglia di Farinelli, è una sagace parodia delle arie di baule dei castrati settecenteschi.
Quest’antologia metateatrale funziona meglio nei momenti in cui questi siparietti seguono le suggestioni musicali ispirate dalle arie, come i toccanti lamenti delle tradite Asteria e Irene, le effusioni di Andronico durante “Quel ciglio vezzosetto” o lo spettacolo di burlesque di Idaspe in “Nasce rosa lusinghiera”.
Tuttavia tale meccanismo ripetuto ad ogni singolo brano scade spesso nel déjà vu, e per rinnovare l’interesse degli spettatori si è calcato un po’ troppo il pedale del forzatamente ridicolo: passi Asteria vestita da sadica dominatrice in “Stringi le mie catene”, ma Bajazet conciato da Super Mario durante “Verrò crudel spietato” mi è sembrato davvero troppo, anche perché le risate del pubblico hanno quasi completamente coperto la musica.
Il lavoro registico viene comunque condotto con coerenza fino alla fine dello spettacolo. Funzionali sotto questo punto di vista i costumi di Giuseppe Palella, le luci di Fabio Barettin e i video di Sergio Metalli. Di contro, la scena di Massimo Checchetto non aiuta la diffusione e le proiezione dei suoni ma, anzi, tende ad assorbirli e i cantanti si trovano spesso costretti a forzare i suoni per farsi sentire.
In sintonia con il disegno registico, Federico Maria Sardelli non cerca un unico fil rouge di lettura della partitura ma fornisce comunque un accompagnamento raffinato e diligente ai singoli brani. La tenuta dell’Orchestra della Fenice tuttavia non risulta sempre uniforme in tutte le sue sezioni, sopratutto i fiati il cui attacco della Sinfonia iniziale è suonato poco preciso.
La compagnia vocale si rivela non solo diretta con zelo, ma anche affiatata e ben calata nel progetto registico, benché si ritrovi spesso costretta a posizioni scomode se non addirittura precarie, come Tamerlano che canta “Cruda sorte, avverso fato” in cima a una scala mentre manovra una marionetta, oltre al citato problema acustico della scatola sonora “bucata”.
Pur dovendosi interfacciare con questo scomodo impedimento acustico, Renato Dolcini nei panni del deposto Bajazet colpisce per incisività degli accenti, eleganza di fraseggio e un sapiente controllo degli passaggi di registro con cui affronta le ripetute virate in acuto di cui è disseminata la parte.
La di lui figlia, Asteria, trova in Loriana Castellano un'interprete di riferimento: il mezzosoprano pugliese svetta sui colleghi grazie ad uno strumento vocale ben proiettato e robusto, che non perde colore né smalto tanto negli affondi nel grave quanto nel sapiente uso dei fiati con cui cesella l’aria “La cervetta timidetta”.
Molto bene anche lo squillante Andronico di Raffaele Pe, che ammanta le sue malinconiche arie con raffinato patetismo più che adatto a rendere giustizia al tormento amoroso del personaggio.
Non del tutto irreprensibile invece il Tamerlano di Sonia Prina, che evidenzia colorature e passaggi di registro tutt’altro che fluidi, oltre una certa tendenza a gonfiare centri e gravi.
Discorso simile per l’Irene di Lucia Cirillo, che si lancia nelle fioriture delle arie di Farinelli in maniera fin troppo spericolata, soprattutto quelle di “Qual guerriero”, mentre la tessitura mediana si mantiene pulita, in virtù della quale regala una toccante e personale interpretazione di “Sposa son disprezzata”.
Chiude il cast Valeria La Grotta, Idaspe non sempre a fuoco ma dalle agilità facili e sicure.
Pubblico partecipe e molto divertito, che suggella ogni conclusione di brano con applausi convinti. Trionfo da stadio con ripetute chiamate in proscenio per tutta la compagnia di canto, il direttore e il team registico, quest’ultimo salutato solamente da alcuni sparuti fischi (già uditi alla fine della citata aria “sadomaso” di Asteria).
La recensione si riferisce alla recita di venerdì 7 giugno 2024.
Martino Pinali