Otello | Gregory Kunde |
Jago | Igor Golovatenko |
Cassio | Piotr Buszewski |
Roderigo | Francesco Pittari |
Lodovico | Alessio Cacciamani |
Montano | Alessio Verna |
Un araldo | Leo Paul Chiarot |
Desdemona | Roberta Mantegna |
Emilia | Irene Savignano |
Direttore | Daniel Oren |
Regia | Allex Aguillera |
Scene | Bruno de Lavenère |
Costumi | Françoise Raybaud Pace |
Luci | Laurent Castaingt |
Video | Etienne Guiol e Arnaud Pottier |
Maestro del coro | Ciro Visco |
Maestro del coro voci bianche | Alberto De Sanctis |
Orchestra e Coro del Teatro dell'Opera di Roma | |
Coro di voci bianche del Teatro dell'Opera di Roma | |
Allestimento Opera di Monte-Carlo e Opera Nazionale Tbilisi |
La carriera di Gregory Kunde dovrà senz’altro essere studiata e analizzata dai posteri come si conviene, in modo da poterne carpire il segreto. Raccontare del suo ultimo Otello all’Opera di Roma potrebbe ricordare i tempi in cui si doveva scrivere ancora una volta del Rigoletto di Leo Nucci o della Turandot di Giovanna Casolla, ovvero ruoli cardine del repertorio italiano, noti per l’intrinseca difficoltà vocale e scenica, interpretati da artisti che ne hanno fatto il proprio cavallo di battaglia e sono riusciti a mantenerli in repertorio anche dopo aver raggiunto un’età non più giovanissima.
Ma “Il caso Kunde” (anziché Makropulos) si rivela ancora più particolare in quanto, come è ben noto, la carriera dell’artista statunitense era iniziata, ormai parecchi anni orsono, all’insegna del belcanto, del repertorio francese e dei ruoli tenorili contraltini, grazie anche a un’eccezionale facilità nel settore acuto e sovracuto che gli permetteva, ad esempio, di dominare il famigerato fa dei Puritani di Bellini. A memoria di chi scrive, la svolta è avvenuta nell’estate 2007 con il debutto nel ruolo di Otello: quell’altro però, ossia l’opera di Rossini che veniva messa in scena al Rossini Opera Festival. Dopo un susseguirsi di indiscrezioni, conferme e smentite su chi avrebbe dovuto interpretare la micidiale parte del moro, venne annunciato Kunde, lasciando più di una perplessità su come avrebbe potuto rivestire i panni vocali di un ruolo baritenorile scritto dal pesarese per Andrea Nozzari. E invece la riuscita complessiva e il successo furono tali da quasi mettere in secondo piano il beniamino di casa Juan Diego Florez, che cantava il rivale Rodrigo.
La virata del repertorio fu poi confermata da altri ruoli Nozzari (a Pesaro è stato visto in Ermione e Zelmira, ad esempio). Ancora più inaspettata fu la svolta verso i ruoli del Verdi maturo (tra cui appunto Otello, ma anche Forza del destino, Ballo in maschera, Don Carlo), di Puccini e del verismo, continuando a macinare debutti e successi in ruoli ben noti per essere particolarmente pesanti e all’opposto della vocalità su cui il tenore aveva costruito la prima parte della carriera. E ancora oggi, dopo aver recentemente aggiunto in lista l’Éléazar della Juive e il Bacchus di Ariadne auf Naxos, ha annunciato il debutto come Dick Johnson nella Fanciulla del West. E a un’età in cui altri tenori si sono già ritirati da tempo, oppure si limitano a cantare ruoli come l’Imperatore in Turandot, o ancora si riciclano come baritoni, Kunde si può ancora permettere di portare in scena la sua interpretazione di una parte micidiale come l’Otello verdiano.
Negli ultimi anni, il ruolo di Otello è diventato un feticcio del cantante, che in Italia ha avuto modo di proporre in numerosi teatri. È un ruolo complesso e piuttosto scabroso, in quanto nell’immaginario di molti melomani sembra portare con sé tutta una serie di fantasmi di precedenti esecutori (o spesso anche di uno solo) che in teoria dovrebbero aver dettato gli standard vocali e interpretativi di riferimento. Non c’è da stupirsi, quindi, che il suo moro, capace di destare gli entusiasmi del pubblico, venga così richiesto. A dire il vero, tuttavia, il Teatro Costanzi avrebbe fatto bene a scritturare Kunde con qualche anno di anticipo per riportare a Roma un’opera che un tempo era di casa, contando ben 11 edizioni tra il 1947 e il 1968 per poi scomparire, vittima forse del mito dei cast precedenti: si contano infatti le presenze di Mario del Monaco per ben quattro volte, Renata Tebaldi in due occasioni – ma anche le Desdemone di Rosanna Carteri e Virginia Zeani – e Tito Gobbi come Jago nientemeno che in sei edizioni. In tempi più recenti è stata ripresa soltanto nel 2008, con Riccardo Muti sul podio.
Chi scrive aveva avuto modo di sentire l’Otello di Gregory Kunde già al Carlo Felice di Genova nel 2014, in una recita al calor bianco con Maria Agresta e Carlos Alvarez. Rispetto al ricordo di dieci anni fa, l’artista americano è sensibilmente più cauto, con fiati accorciati, un registro grave meno consistente e quello centrale più velato. Il timbro non è mai stato uno dei punti di forza di Kunde e appare ora comprensibilmente meno fresco.
Ma l’affinità del tenore con questo repertorio si rivela nella cura del fraseggio e nell’estrema sicurezza del settore acuto, che lo rende capace di sfolgorare laddove invece quasi tutti si impiccano o faticano. Ha poi l’intelligenza di dosare le proprie forze in un ruolo così lungo ed impervio, così che se parte con comprensibile cautela nel primo atto è capace di arrivare a un “Niun mi tema” eccezionalmente sicuro, risultando sentito e toccante tanto da lasciare l’intero teatro con il fiato sospeso. Non patteggia mai con la parte e ne viene sempre fuori con impeto e squillo. Alla fine riceve un meritato successo.
Il resto del cast si pone su un alto livello complessivo, a partire dallo Jago di Igor Golovatenko, dalla pronuncia perfetta e dal fraseggio sottile e insinuante, mai sbracato. Il baritono russo possiede inoltre una figura elegante perfetta per delineare uno Jago fintamente amichevole a cui tutti credono (ma brutale con Emilia). Vocalmente appare più sicuro in acuto che nel grave, con un volume più che discreto e un bel colore; canta sempre il ruolo, senza effettacci o sbracature, riuscendo addirittura a farlo sembrare quasi facile.
Roberta Mantegna è un soprano aduso ai ruoli più impervi del repertorio, dal primo Verdi a Norma e Imogene, per cui una parte di stampo prettamente lirico come Desdemona sembra quasi una passeggiata di salute per una vocalità come la sua. Un soprano lirico può presentare magari maggiore morbidezza in certi passaggi ma comunque la voce corposa non impedisce al soprano palermitano di alleggerire il suono nei momenti più delicati della parte, come la preghiera finale.
Per il direttore Daniel Oren verrebbe da fare un discorso analogo a quanto scritto per Kunde, in quanto sembra anche lui in una nuova fase di una carriera pluridecennale. Certi eccessi epidermici si sono stemperati, in favore di una cura del suono di livello superiore, che mette in risalto gli impasti orchestrali (aiutato da un’orchestra ancora una volta in stato di grazia), senza lasciare da parte il passo teatrale. Non è un’interpretazione rivoluzionaria o innovativa, ma è un modo di guardare alla tradizione lasciandosi abbagliare da un suono orchestrale splendido e da una cura del dettaglio non fine a sé stessa. Una cosa che invece non è stata mitigata nella carriera di Oren è l’amore per i tagli: la brusca cesura all’interno del concertato che chiude il terzo atto ci priva inutilmente di uno splendido passaggio musicale in un’opera che non presenta nemmeno particolari problemi di durate eccessive per cui grida davvero vendetta.
Piotr Buswzewski è un Cassio dal timbro non seducente ma dalla bella figura e dalla buona tenuta complessiva. Irene Savignano ha dimostrato nello stesso teatro di poter cantare Amneris e come Emilia è un lusso. Risalta poco nei concertati ma colpisce in particolare nel quarto anno, con la sua rovente accusa a Otello.
Molto buono il restante cast: Francesco Pittari come Roderigo, Alessio Verna come Montano e l’araldo di Leo Paul Chiarot. Non troppo morbido nell’emissione il Lodovico di Alessio Cacciamani ma comunque efficace.
Con l’allestimento di Allex Aguilera, già andato in scena a Montecarlo e Tbilisi, il Costanzi sembra voler farsi perdonare dal pubblico più tradizionalista le regie della stagione. Così si assiste a un rassicurante Otello in foggia cinquecentesca (ma senza trucco nero in volto), senza scossoni e senza sorprese, se non l’idea di far morire Desdemona affogata da Otello in una sorta di piscinetta orientale interna alla scena, la cui presenza però dalla platea viene soltanto intuita. In un allestimento così detto tradizionale risaltano però maggiormente alcune ingenuità, come “Ciel già gronda di sangue Montano” cantato da Jago mentre il detto Montano sta ancora duellando in ottima salute.
Nel complesso, uno spettacolo che scivola via senza lasciare troppa memoria di sé e dove si conta molto sulla buona volontà dei singoli per quanto riguarda la recitazione, e il coro (peraltro assai bravo) viene relegato a statica presenza. Rispetto ad altre produzioni viste a Roma quest’anno dubito che si farà ricordare, nel bene o nel male.
La scena di Bruno de Lavenère è fissa, situata all’interno di un cortile colonnato su due piani con una passerella a metà altezza, arricchita soltanto da alcuni veli o da lampade di foggia orientale che scendono dall’altro per incorniciare il duetto d’amore e tornano per la scena della camera di Desdemona, costretta a dormire per terra. Visivamente quindi si rischia una certa monotonia, spezzata soltanto dalle luci di Laurent Castaingt e dai costumi di Françoise Raybaud Pace: splendidi quelli di Desdemona, che sembrano usciti da un dipinto di Veronese, mentre nel coro di voci bianche sembrano stranamente tutti pronti per la prima comunione.
Alla fine, l’elegante pubblico delle prime romane decreta un buon successo per tutta la compagnia dei cantanti e per il maestro Oren.
La recensione si riferisce alla recita del 1° giugno 2024.
Daniele Galleni