Carmen | Gaëlle Arquez |
Don José | Joshua Guerrero |
Micaela | Mariangela Sicilia |
Escamillo | Erwin Schrott |
Frasquita | Meghan Picerno |
Mercedes | Anna Pennisi |
Dancairo | Alessio Verna |
Remendado | Blagoj Nacoski |
Zuniga | Nicolas Brooymans |
Morales | Matteo Torcaso |
Direttore | Omer Meir Wellber |
Regia | Fabio Ceresa |
Scene e costumi | Renato Guttuso |
Luci | Giuseppe Di Iorio |
Movimenti mimici | Mattia Agatiello |
Scene ricostruite da | Alessandro Nico |
Costumi ricostruiti da | Anna Biagiotti |
Maestro del coro | Ciro Visco |
Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma | |
Coro del Teatro dell'Opera di Roma | |
Coro di voci bianche del Teatro dell'Opera di Roma |
Ancora una volta, Carmen. La zingara più famosa del mondo torna al Teatro dell’Opera di Roma con le scene e i costumi di Renato Guttuso (le prime, molto belle, ricostruite da Alessandro Nico, i secondi, meno convincenti, da Anna Biagiotti). Più che a Siviglia, sembra che il dramma sia ambientato in un paesino siciliano: si intravede uno splendido scorcio di mare turchino, sul fondo della prima scena, e qua e là compaiono le archetipiche tovaglie da tavola a quadri bianchi e rossi. A questa interessante cornice, con i fondali dipinti secondo l’uso del secolo scorso (da segnalare lo splendido colpo d’occhio della seconda scena, immaginata in una sorta di locanda “brutalista” aperta, affacciata su un bosco), si è associata la nuova regia di Fabio Ceresa.
Ceresa mette in scena un sacco di culi e belle gambe, maschili e femminili; sparge a piene mani balletti e ballettini e rende il tutto più postmoderno e, a tratti, quasi surreale, aggiungendo idee e dettagli difficilmente contestualizzabili e, nelle parole del regista, “rendendo omaggio all’Italia post-Sessantotto”. Sul palco, insomma, si vedono cose strane: armi orientali color rosso fiammante (?!) strette tra le mani delle contrabbandiere; le donne sigaraie “fumano fiori bianchi che poi mettono nelle canne dei fucili”; “la Chanson bohème che apre il secondo atto è un omaggio al rogo dei reggiseni avviato dalle femministe in America”; sui muri dell’immaginario paesino mediterraneo in cui l’azione ha luogo, come alla Sorbona, durante l’arresto di Carmen compare la scritta “Il est interdit d’interdire” (cioè “è vietato vietare”).
Funziona? No. Tanto più che, a parte le controscene e le singole idee più o meno interessanti, l’approccio registico ha un aroma oltremodo stantio e il lavoro di recitazione fatto sugli interpreti è, nella maggior parte delle scene, abbastanza banale: il coro è fermo per buona parte del tempo e, quando è impiegato attivamente, si muove in modo semplice e scontato; manca un lavoro di differenziazione individuale per i coristi, come abbiamo visto fare recentemente, per esempio e rimanendo nella stessa opera, anche nella splendida “Carmen messicana” di Valentina Carrasco; in generale, mancano scelte interpretativo-attoriali interessanti e l’idea di fondo appare sconclusionata e poco chiara.
Questa volta, comunque, non è la regia l’aspetto di maggior interesse della serata. L’impronta principale su queste recite di Carmen l’ha messa, senza alcun dubbio, il direttore Omer Meir Wellber, effettuando alcune scelte molto importanti e portandole fino in fondo.
La prima è quella di tagliare la quasi totalità dei dialoghi (“credo che non funzionino e, soprattutto, che aggiungano niente a Bizet”, dichiara nell’intervista allegata al libretto di sala). Questo, da un lato, rischia di produrre un effetto “highlights”, cioè la sensazione di stare assistendo non all’opera completa, ma a una sorta di spettacolo con “i pezzi musicali più belli dalla Carmen”; in alcune scene, il taglio del dialogo può generare una perdita nettissima in drammaticità e perspicuità; su tutte, lo splendido duetto del primo atto tra José e Carmen, inspiegabile nel proprio calore se non introdotto da un adeguato scambio dialogico.
Oltre al taglio dei dialoghi, l’altra caratteristica musicale di questa Carmen a balzare alle orecchie è l’approccio “estremistico” alla partitura, quasi a mo’ di esperimento: alcune cose funzionano bene, altre meno.
Si parte dalla versione più veloce mai ascoltata dal vivo del preludio all’atto primo, con le risatine del pubblico più navigato e i saltelli di un Wellber particolarmente fomentato sul podio. Le escursioni dinamiche e le variazioni agogiche sono nettissime, quasi caricaturali, i volumi spesso molto elevati; tanto per fare un esempio, finalmente abbiamo la risposta alla domanda: “Quanto può iniziare lentamente la Chanson bohème?”; tanto l’inizio è lento, quanto il finale del brano è estremamente vorticoso; così vorticoso, che la protagonista (pur brava) ha serie difficoltà a restare a tempo, in un paio di passaggi. L’effetto, comunque, difficoltà dei cantanti a parte, è coinvolgente e affascinante. Corsa a perdifiato che funziona molto meno bene, però, in altre pagine, come il gustosissimo quintetto “criminale” del secondo atto e, ancor più, la grande aria di Micaela del terzo atto Je dis que rien ne m'épouvante.
L’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma segue con grande attenzione le indicazioni del direttore, eseguendo molto bene pagine che conosce a menadito (a Roma, da vari anni, Carmen è quasi sempre presente in cartellone), e anche il Coro del Teatro dell’Opera di Roma guidato da Ciro Visco si mette in mostra con una prestazione maiuscola, a partire già dal primo intervento (Sur la place), mantenendo omogeneità e sincronicità nel canto, con una dizione molto ben comprensibile e una bella tavolozza di colori.
Niente male la Carmen di Gaëlle Arquez: il mezzosoprano francese mette in mostra voce e fisico giunonici, usati molto bene a partire dall’iniziale Habanera con il classico balletto seduttivo. Il canto è sicuro, le agilità ben gestite (tranne nel momento in cui si trova a inseguire Wellber nel finale da centometrista della Chanson bohème) e la dizione ottima e comprensibile. A livello recitativo, nonostante la proposta registica per il suo personaggio sia a tratti banalotta, si impegna per risultare credibile.
Don José è affidato a Joshua Guerrero. Il tenore messicano-statunitense che avevamo già potuto osservare nel Mefistofele romano del 2023 ha un fisico ben adatto al ruolo e una non disprezzabile verve interpretativa e recitativa; è dotato di una voce abbastanza robusta, con tendenza a ingrossarsi nella salita all’acuto, dal timbro non particolarmente felice che descriverei come ruvido, granuloso; inoltre, mostra di avere ancora molto da migliorare in merito alla dizione del francese. Inizia maluccio, urlicchiando il duetto iniziale, e migliora pian piano nel corso della serata, cavandosela discretamente nell’aria “del fiore” e toccando l’apice nel finale.
Erwin Schrott si porta a casa senza dubbio la palma della serata. Particolarmente ispirato, sia dal punto di vista canoro che recitativo, sembra l’unico a interagire musicalmente col direttore sul momento, nonostante anche a lui la regia riservi un trattamento infausto (a tratti, sembra una macchietta a cui siano stati assegnati solo due movimenti possibili: il “gesto del torero” e “il gesto delle corna”).
Mariangela Sicilia, a Roma, l’avevamo già ascoltata dal vivo a Caracalla nel 2022, nei panni di Micaela. In quell’occasione, il direttore Jordi Bernàcer impose un tempo più lento alla grande aria del terzo atto e ce la fece gustare al massimo del suo splendore. Fa piacere costatare come, a tre anni di distanza, la tecnica canora e la voce di Mariangela Sicilia siano splendidamente intatte e ben adatte al personaggio.
In una serata teatrale vivace e disomogenea, anche il resto del cast si muove su livelli assai differenti. Non particolarmente riusciti gli esiti artistici per la Frasquita di Meghan Picerno, mentre se la cava abbastanza bene la Mercédès di Anna Pennisi. Appena dignitosi i Dancaïre e Remendado di Alessio Verna e Blagoj Nacoski (ma anche loro devono vedersela con i tempi schizzatelli del direttore, non semplici da gestire nel quintetto). Un po’ meglio con lo Zuniga di Nicolas Brooymans e il Moralès di Matteo Torcaso.
La recensione si basa sulla recita di giovedì 26 giugno 2025.
Michelangelo Pecoraro