Don Giovanni | Luca Micheletti |
Donna Anna | Maria Grazia Schiavo |
Donna Elvira | Mariangela Sicilia |
Don Ottavio | Giovanni Sala |
Leporello | Alessandro Luongo |
Zerlina | Francesca Di Sauro |
Masetto | Leon Košavić |
Il Commendatore | Vittorio De Campo |
Direttore | Riccardo Muti |
Regia | Chiara Muti |
Scena | Alessandro Camera |
Costumi | Tommaso Lagatolla |
Luci | Vincent Longuemare |
Maestro al fortepiano | Alessandro Benigni |
Maestro del Coro | Salvatore Punturo |
Orchestra e Coro del Teatro Massimo | |
Nuovo allestimento del Teatro Massimo in coproduzione con il Teatro Regio di Torino |
Era lo spettacolo più atteso della stagione 2023 del Teatro Massimo di Palermo, l’ultimo in cartellone, titolo celeberrimo nel mondo dell’opera, la cui direzione è stata affidata ad uno fra i più grandi direttori d’orchestra: Riccardo Muti. Muti era stato a Palermo per registrare una Messa da Requiem di Verdi, nella primavera del 2021, in piena pandemia, ma a porte chiuse: il pubblico non aveva potuto godere della sua presenza e il Teatro Massimo si ripromise di farlo ritornare in tempi migliori. Fortunatamente, la promessa è stata mantenuta e, nonostante una settimana di tensione, culminata nello sciopero che ha fatto saltare la prima recita, il pubblico palermitano ha potuto assistere a uno spettacolo che difficilmente dimenticherà. Il connubio tra Don Giovanni, il lavoro che, secondo Kierkegaard, merita il posto più elevato tra le opere classiche, e Riccardo Muti, sfocia nel sublime. È superfluo dilungarmi sull’esperienza che trasuda dalla direzione del Maestro: la sua gestualità, essenziale, composta, elegantissima ma estremamente comunicativa, genera delle sonorità affascinanti e drammatiche, una calamita per le orecchie degli spettatori che sono emotivamente coinvolti per l’intera serata. Fin dai primi accordi dell’ouverture l’orchestra del Teatro Massimo lascia emergere la tensione drammatica che serpeggia nel corso dell’opera: l’angoscia che scaturisce dalla brama di vivere del protagonista apre il capolavoro mozartiano e sintetizza l’essenza del libertino, offrendo immediatamente il tema che ritornerà nel secondo atto, durante il dialogo con il convitato di pietra, per poi passare, fin dall’inizio dell’Allegro, alla gioia di vita del protagonista. La grandezza di Muti consiste nell’ossequioso rispetto che rivolge alla partitura, assicurandosi che nessuna dinamica, accento, intenzione del compositore venga tralasciata. Ed ecco che riusciamo ad ascoltare finalmente la purezza di Mozart, raffinata, e allo stesso tempo ironica, mai eccessiva, ma sempre espressiva, tanto drammatica, quanto giocosa. Il suono dell’orchestra esplode esclusivamente nel momento in cui interverrà l’ombra del Commendatore per dare al seduttore l’ultima occasione per redimersi: le sonorità impetuose provenienti dalla buca descrivono la potenza della morte, lasciando che si avveri la profezia introdotta dall’ouverture.
L’incantesimo che riesce a creare il Maestro Muti si concretizza all’interno di un allestimento assai efficace, attento alle esigenze musicali e fedele al libretto, curato da Chiara Muti, e anche grazie a un cast all’altezza della serata, e alla puntuale partecipazione, seppur fuori scena, del Coro del Teatro Massimo, ben preparato da Salvatore Punturo. I personaggi si muovono su un piano inclinato che rappresenta un fastoso palazzo in rovina, le cui porte e finestre, da cui escono i vari personaggi, rimandano a un contesto sepolcrale (anche il fatto che, all’inizio del primo atto, tali aperture siano fumanti, lascia presupporre che i protagonisti arrivino direttamente dagli inferi). La centralità del protagonista, anche nella visione registica, è resa evidente da un chiaro messaggio che affiora da inizio a fine spettacolo: tutti coloro che fanno parte della vicenda di Don Giovanni, a eccezione del protagonista, non sono altro che dei burattini che entrano nudi in scena e che vestono i panni di nobildonne, contadini, servi, gentiluomini, mariti offesi. Personaggi privi dunque di una vera essenza, ma piuttosto stereotipi che si muovono nel mondo delle convenzioni e che riescono a sopravvivere, ma che sfiorano il vero vivere solo nel momento in cui si concedono un attimo di peccaminosa perdizione. Tutti loro infatti restano bloccati nelle loro posizioni e nelle loro convinzioni, senza, di fatto, mutare nel corso della vicenda.
La nobildonna disonorata, Donna Anna, interpretata da Maria Grazia Schiavo, in seguito al torto subito dal libertino cela, dietro il desiderio di vendetta per la morte del padre, un tiepido sentimento per il futuro sposo. La Schiavo affronta con sicurezza il ruolo, è convincente nel recitativo della prima aria (“Don Ottavio, son morta!”), è sempre molto espressiva, offre un’ottima proiezione e un timbro squillante; il soprano conferma di essere all’altezza del contesto durante l’esecuzione della seconda aria (“Non mi dir bell’idol mio”), grazie a un’eccellente gestione del fiato e una notevole facilità nelle colorature.
È buona anche la prova di Mariangela Sicilia, una Donna Elvira che lascia spazio ad entrambe le sfaccettature dell’amore che prova per Don Giovanni: da un lato l’eros, dall’altro l’affetto sincero che la spinge a sperare in una redenzione fino alla fine. La Sicilia emoziona durante la difficile terza aria (“In quali eccessi, o Numi…Mi tradì quell’alma ingrata”; la versione andata in scena a Palermo è infatti una commistione di quella di Praga del 1787 e di quella di Vienna del 1788, includendo dunque, oltre alla suddetta aria di Elvira, anche “Dalla sua pace”): l’uso delle mezze voci durante il recitativo fa trapelare il contrasto d’affetti che l’attanaglia, mentre l’aria scorre con eleganza e precisione.
Un plauso particolare va rivolto a Francesca Di Sauro, nel ruolo di Zerlina. Il mezzosoprano napoletano possiede un timbro caldo, morbido e affascinante; colpisce altrettanto l’abilità tecnica della Di Sauro: il suo legato è perfetto, le frasi in pianissimo sempre ben proiettate e intonate, il registro acuto è sicuro. Ne viene fuori il ritratto di una contadina passionale e spigliata, anche lei vittima della seduzione del libertino, ma abile a riconquistare il suo giovane marito, Masetto, qui affidato a Leon Košavi. Il baritono croato è convincente nel ruolo del marito geloso, è sempre preciso e pronuncia il testo in maniera molto comprensibile.
Accanto a lui, un altro uomo innamorato, Don Ottavio, trova in Giovanni Sala un interprete eccellente. Finalmente Ottavio non è un fantoccio privo di carattere al limite del sopportabile, ma un uomo nobile e dai sentimenti sinceri, che affronta con grande dimestichezza l’intero ruolo. Se, insieme ai due soprani, è estatico il “Protegga il giusto cielo” del finale atto I, intonato sottovoce, le sue due arie dimostrano le abilità del tenore. È sicuro nella seconda aria, ma raggiunge il culmine della serata durante l’esecuzione di “Dalla sua pace”: i filati con cui attacca le strofe, il pathos che lascia trasparire, l’enfasi dei primi due “morte mi dà” (mentre lascia al terzo un pianissimo toccante) provano la bellezza di quest’aria, quando la si canta come Mozart l’ha pensata.
Dunque, ad animare i burattini dei personaggi di cui si è parlato fin ora e a interrompere momentaneamente la loro monotonia è l’energia vitale sprigionata da Don Giovanni le cui avventure si snodano grazie alla complicità del suo fedele Leporello. Nel ruolo del servo furbo abbiamo avuto il piacere di ascoltare Alessandro Luongo, adattissimo alla parte. Innanzitutto per presenza scenica: Luongo si muove agilmente sul grande palcoscenico, è complice del libertino, ma funge anche da coscienza talvolta, è vittima, ma anche brontolone e scocciato. Emergono costantemente tutte le sfaccettature di questo personaggio, tanto nelle arie, quanto nei recitativi (accompagnati al fortepiano, con improvvisazioni in perfetto stile dell’epoca da Alessandro Benigni). Anche vocalmente Luongo funziona: facilità nell’emissione, perfetta scansione del testo, tanto nell’aria di sortita (“Notte e giorno faticar”), quanto nell’aria del catalogo; “Madamina, il catalogo è questo” si rivela molto incisiva, sia grazie all’esposizione del baritono, estremamente esplicito nell’elenco, ma anche suadente al limite sensuale nel “sua passion predominante è la giovin principiante”, ma soprattutto visivamente perché le donne amate da Don Giovanni si materializzano sulla scena dinanzi alla povera Elvira e sfilano sul palcoscenico. Sia Luongo che Luca Micheletti, nel ruolo del protagonista, sfoggiano un physique di rôle che rende credibile lo scambio di identità tra i due, solo uno dei tanti travestimenti a cui Don Giovanni deve ricorrere. Micheletti è il completamento perfetto della serata. È ammaliante nella voce e nelle movenze, è seducente, quasi romantico durante la commovente serenata eseguita interamente a mezza voce, ma effervescente nella sua gioia di vivere, come mostra, ad esempio, nella frizzante “Fin ch’han dal vino”. Il suo essere istintivo (“Mi pare di sentir odor di femmina!”), un demone erotico che non può fossilizzarsi su un’unica donna (lo spiega con estrema naturalezza, quando rivela a Leporello che “Chi a una sola è fedele, verso le altre è crudele”), lo eleva rispetto alla realtà in cui vive (emblematico è il gesto di incoronarsi nelle fattezze del Sole, l’elemento vitale attorno a cui dunque ruotano tutti gli altri personaggi), lo rende eterno (la regista sottolinea ciò tramite i costumi delle donne: Donna Anna è una dama alla corte di Re Sole, Donna Elvira indossa un abito tipico della Belle Epoque, Zerlina un abito in stile anni Cinquanta) ma lo porterà alla sua fine. “Viva la libertà!”, proclama Don Giovanni prima che venga smascherato e inizi per lui, di fatto, il vorticoso precipitare verso l’Inferno (rappresentato scenicamente da una profonda crepa sulla facciata del palazzo su cui la vicenda si svolge). Ed è proprio questa fede nella libertà che gli impedisce di porsi dei limiti e che lo porta a sfidare anche il mondo dei morti, quando il Commendatore, qui l’austero e solenne Vittorio De Campo, gli offre la possibilità di fare un passo indietro. Ma come potrebbe piegarsi a tale richiesta l’eroe emblema della libertà assoluta? La salvezza non sarebbe altro che un filo che lo trasformerebbe in un burattino, al pari degli altri personaggi. Don Giovanni non può, non deve soccombere. I reiterati “No!” che preludono alla sua fine sono la prova della sua grandezza. E della sua eternità.
La recensione si riferisce alla recita del 26 ottobre 2023.
Federica Faldetta