Werther | Benjamin Bernheim |
Albert | Jean Sébastien Bou |
Le Bailli | Armando Noguera |
Schmidt | Rudolphe Briand |
Johann | Enric Martínez-Castignani |
Charlotte | Victoria Karkacheva |
Sophie | Francesca Pia Vitale |
Bruhlmann | Pierluigi D'Aloia |
Katchen | Elisa Verzier |
Les enfants: | |
Fritz | Niccolò Vittorio Villa |
Max | Alessandro Malgeri |
Hans | Alberto Tibaldi |
Karl | Lorenzo De Gaspari |
Gretel | Sofia Dazio |
Clara | Cecilia Menegatti |
Direttore | Alain Altinoglu |
Regia e coreografia | Christof Loy |
Scene | Johannes Leiacker |
Costumi | Robby Duiveman |
Luci | Edrich Roland |
Maestro del Coro di Voci Bianche | Bruno Casoni |
Orchestra del Teatro alla Scala | |
Coro di Voci Bianche dell'Accademia del Teatro alla Scala | |
Nuova produzione Teatro alla Scala in Coproduzione con Théâtre des Champs-Élysées |
Tra I dolori del giovane Werther di Goethe e l’opera di Massenet corre una evidente differenza.
Il romanzo è un apologo morale, una storia di iniziazione e di educazione sentimentale, con una ben assestata stoccata ironica al cuore borghese e provinciale della società di fin de siècle (XVIII°), perbenista e un po’ asfittica, preda della rispettabilità e dell’intangibilità dei vincoli familiari. L’opera è invece un vero e proprio teatro da camera di un intimismo parossistico, posto sotto un’osservazione spietata ed implacabile, che elude però gran parte dei meccanismi di critica sociale descritti da Goethe. Massenet è in perfetta linea con la lettura romantica del testo ma è altresì vicino al realismo e al naturalismo freddo e lunare, di Baudelaire ad esempio, ma anche prossimo a Maupassant, Zola o Flaubert, mentre la musica richiama Schubert, Schumann, Chopin ma soprattutto Čajkovskij, legata com’è alla disperazione esistenziale e alle avversità del destino.
La regia di Christof Loy (autore anche delle coreografie) si allinea all’impostazione intimistica del compositore, concentrandosi sulla recitazione che risulta convincente. Werther è un dramma intimo, che mette in scena l’isolamento e la solitudine dei protagonisti con le loro tensioni psicologiche e affettive. Lo spazio scenico è di un’elegante semplicità (l’autore è Johannes Leiacker): una parete bianca isola i personaggi al proscenio mentre attraverso una porta si scorgono, al di là, fiori, una tavola, sedie, una serra con un grosso arancio, e lo svolgersi della quotidianità di una normalissima vita sociale. Il rapporto tra Werther e Charlotte nasce da un conflitto evidente, benché la musica ci dica da subito che i due si amano. Werther è attratto da Charlotte, avendo vissuto tante tempeste nel proprio animo desidera abbracciare l’innocente e felice mondo in cui crede viva Lei. Charlotte, invece, soffre la vita piccolo-borghese - una specie di spazio interno protetto ma soffocante - rappresentata da Albert, il quale per contro sogna un’esistenza senza troppi cambiamenti, senza tempeste o sconvolgimenti dei sentimenti, che dall’infanzia si snodi sempre uguale fino alla vecchiaia e alla morte. In fondo, la stessa vita che vivono il borgomastro e i suoi amici di bevute: Johann e Schmidt.
Nel primo atto all’idillico quadretto dei vivaci bambini e della placida e serena esistenza degli anziani si contrappone la visione di Werther che non si rende conto della tumultuosa vita interiore di Charlotte, la quale deve rinunciare ai sogni e venire a patti con una realtà davvero frustrante: sposare Albert. A proferire “Albert est de retour” non è il Bailli ma Sophie, che agisce per gelosia, perché si è innamorata pure lei di Werther.
Nel secondo atto, Charlotte organizza di malavoglia con Albert le celebrazioni per le “nozze d’oro” del pastore della chiesa locale e di sua moglie. Davanti a lei si squaderna una vita triste e monotona al fianco di un consorte mai amato. La vita “sognata” sembra fuggire via, ama Werther e purtuttavia fa violenza a sé stessa e lo allontana.
Nel terzo atto, la scena delle lettere è una vera scena di follia. Charlotte è distrutta. Per giunta, Sophie, si rivela una rivale per la sorella, non facendo niente per nascondere il suo amore per Werther. L’arrivo del protagonista è una catastrofe. Tra rimproveri e riconciliazioni i due non riescono più a nascondere i loro sentimenti. Dopo il bacio e solo con molta fatica Charlotte respinge Werther. Rientra in scena Albert richiamato dalla gelosa Sophie. Dopo aver gettato per sfida ai piedi di Albert le lettere dell’amato, Charlotte consegna direttamente a Werther le pistole.
Nel quarto atto, Werther ricompare moribondo nello spazio al proscenio ma con un poco credibile andirivieni in piedi e seduto, mentre gli altri tre protagonisti assistono alla sua morte attoniti e sconvolti, vittime dell’amore e feriti nell’animo. A Charlotte non restano che i rimpianti e l’infelicità che accompagneranno il resto della sua vita. Nel corridoio troneggia un ben triste albero di Natale.
Robby Duiveman è l’autore degli eleganti costumi, nel terzo atto “da sera” (Charlotte in pelliccia e Sophie in nero) e Edrich Roland è quello delle luci.
Piccola notazione registica, non abbiamo ben compreso perché Werther passa gran parte del tempo tenendo la mano sinistra in tasca, come un dandy o come uno scostante Onegin (?), dal momento che il tumulto dei sentimenti, descritti con evidenza dalla musica, ne fanno un “eroe” davvero tormentato.
Per il direttore Alain Altinoglu l’opera è un lunghissimo, teso e drammatico duetto d’amore. Che sposa da un lato l’eleganza, la grazia e la poeticità (come nel vaporoso valzer che accompagna il duetto Charlotte-Sophie) senza però indugiare troppo in abbandoni estatici, e dall’altra i soprassalti di disperazione e passionalità nevrotica, con contrasti volutamente al calor bianco. La concertazione scorre in maniera asciutta ma con una tensione esistenziale che tiene conto della cupa malinconia, descritta da tutta una gamma di toni autunnali, come della vivacità della gioventù, qui declinata con pennellate di finezza e allegria. L’orchestra ha colori e tempi, sonorità e fraseggio sempre appropriati e di valida intensità emotiva, che offrono un accompagnamento al canto puntuale, in cui emergono gioia, dubbi, malesseri, ambiguità e strazio inconsolabile. Di questa concertazione ricordiamo anche il bell’impatto suscitato dal preludio iniziale, con quei due temi che dipingono il protagonista: il suo amore disperato, cupo, appassionato, dal vigore ritmico in crescendo, e quello della calma della natura, con il violino solista dolce e contemplativo, che trasfigura l’amore per Charlotte. Il preludio al terzo atto, in cui si intersecano con equilibrio i temi propri e drammatici di Werther e il dolente incedere dei violoncelli nel descrivere i rimpianti di Charlotte. Pure l’interludio (un vero intermezzo) tra il terzo e l’atto conclusivo ha una buona resa sonora, tra l’ardente richiamo all’amore appassionato e l’intensificarsi del ritmo sulle note tragiche del tema della minaccia, che erano già apparse alla lettura delle lettere di Werther. Il finale poi scorre tra la trasparenza del “chiaro di luna”, le gioiose voci dei bambini e l’intenso ed inconsolabile addio ad un’ideale amoroso, dipinto dal tema della deplorazione, con l’orchestra che si spegne come un soffio, quello ormai ridotto al lumicino del morente Werther.
Per superare il ricordo fantastico delle prestazioni di Alfredo Kraus, qui alla Scala nel 1976 e nel 1980, sotto la direzione di Georges Prêtre, (ma anche quello altrettanto straordinario di Juan Diego Flόrez a Bologna con Michele Mariotti come direttore) occorreva uno straordinario Werther e Benjamin Bernheim è appunto un eccellente protagonista. Al di là di un timbro di rara smaltatura e luminosità, l’emissione e il controllo del fiato sono da accademia del canto. Mezze voci, piani e pianissimi, legato, rubati, smorzature vibranti e sfumature che impreziosiscono un fraseggio ricco di chiaroscuri. Il passaggio è superato in surplace con acuti, La diesis fino al Si naturale, di squillo e penetranza ma all’occorrenza arricchiti da proiezioni carezzevoli. Musicalità estrema nel canto di conversazione ma anche in qualche falsetto appropriato. Così l’interprete è a tutto tondo un eroe romantico, umanamente fragile, intenso e emotivamente passionale. Nell’invocazione alla natura, utilizza suoni trasparenti di pura poesia, come nella dichiarazione d’amore. Si macera disperato con una nevroticità un po’ malsana nell’idea fissa di aver perso il grande amore della vita in “C’est moi qu’elle pouvait aimer!” senza attacchi lacrimevoli né singhiozzi. Nel duetto del secondo atto con Charlotte il suo Leitmotive d’amore e passione incede tra tristezza, amarezza e rabbia. In “Pourquoi me reveiller” fonde passione e dolcezza creando un’atmosfera estatica ma il finale terzo è tutto un crescendo palpitante. Nella morte, ai suoni eterei e all’accento a cui dona una certa opportuna solennità evita di aggiungervi un esagerato patetismo.
Victoria Karkacheva debutta alla Scala e nel ruolo, non è al livello di Bernheim ma è una Charlotte di aristocratica compostezza. Bel timbro, con centri pieni e salita agli acuti ben timbrata. Forse più cantante che non interprete, anche perché inintelligibile nella dizione. Il suo mondo, che traspare da tutti i suoi interventi, è quello di una donna ingabbiata in convenzioni che reprimono i sentimenti, in cui domina il senso del dovere, in cui la ritrosia nasconde una vitalità e una sensualità intraviste tra le maglie del quotidiano ma impossibilitate ad esplodere. Vedi i duetti con Werther, la lettura drammatica delle lettere, l’aria delle lacrime (accompagnata da una dolorosa melodia del sassofono contralto che la arricchisce di una plumbea stanchezza esistenziale) o l’animata e disperata preghiera. Nel lungo ed estenuante finale, in un crescendo di ossessione amorosa, la disperazione e la commozione poi trovano sfogo senza pudore.
Jean Sébastian Bou interpreta Albert, il consorte attempato di Charlotte. Manca di morbidezza nell’emissione, necessaria per descrivere un benevolo marito, inizialmente estasiato dall’aver coronato il sogno della sua vita. Lascia trasparire una mielosa affettuosità in “Elle m’aime”, una eleganza anche un po’ ingenua nel duetto con Werther ma al quarto atto, prende finalmente atto dei reali sentimenti in gioco e quindi vira il suo atteggiamento verso una cupa e umanissima gelosia.
La Sophie di Francesca Pia Vitale ha tutta la grazia e leggerezza di una ragazzina piena di vita, cresciuta però rapidamente, come dimostra nella briosa arietta “Du gai soleil, plein de flamme” o nell’ingenua, ma questa sera non del tutto, aria del riso “Ah” le rire est béni, joyeux, léger, sonore!” con lievi e ben sgranate fioriture accompagnate del flauto svollazzante.
Bravi: il burbero Bailli di Armando Noguera; i beoni, Johann interpretato da Enric Martínez-Castignani e Schmidt da Rodolph Briand, che si divertono al ritmo della briosa "Chanson à boire"; Pierluigi D’Aloia nel ruolo di un Bruhlmann particolarmente disperato ed ubriaco e Elisa Verzier in quello di Katchen.
E bravissimi les enfants, diretti dal maestro Bruno Casoni, nei loro gioiosi cori natalizi, che Loy fa muovere con disinvoltura: Niccolò Vittorio Villa, Fritz; Alessandro Malgeri, Max; Alberto Tibaldi, Hans; Lorenzo De Gaspari, Karl; Sofia Dazio, Gretel; Cecilia Menegatti, Clara.
Serata di grande successo per tutti, anche, è bene sottolinearlo, per il regista Loy. Ovazioni più che meritate per Bernheim.
La recensione si riferisce alla Prima del 10 giugno 2024.
Ugo Malasoma