Direttore | Riccardo Muti |
Chicago Symphony Orchestra | |
Programma | |
Richard Strauss | Aus Italien, fantasia sinfonica in sol magg. op. 16 |
Sergej Prokof'ev | Sinfonia n. 5 in si bem. magg. op. 100 |
I nomi di Riccardo Muti e del Teatro alla Scala sono legati indissolubilmente, non solo per gli anni da direttore musicale ma anche per la “genealogia” discendente da Arturo Toscanini. Ogni ritorno di Muti al Piermarini è di per sé un evento, per dimostrarlo bastano l’affollamento – davvero non comune – di platea e palchi unito ai calorosi tributi da parte del pubblico all’inizio e al termine di ogni titolo (nel mezzo solo una trepidante compostezza, con la sola eccezione di un «élla!» esclamato da uno spettatore forse troppo entusiasta alla fine del primo movimento della Sinfonia di Prokof’ev).
Quest’anno Riccardo Muti si presenta alla testa della Chicago Symphony Orchestra, di cui è stato recentemente nominato «direttore emerito a vita», nella penultima data del corposo tour europeo che ha portato la CSO a Bruxelles, Parigi, Lussemburgo, Essen, Colonia, Francoforte, Vienna, Budapest, Torino, per l’appunto Milano e si esaurirà a Roma, un lungo viaggio per il quale Muti ha messo in valigia alcuni vecchi amici – L’uccello di fuoco e Aus Italien, ad esempio – insieme a qualche novità come The triumph of the octagon, un lavoro sinfonico composto da Philip Glass dopo un incontro con il Maestro e a lui dedicato (l’ottagono del titolo si riferisce alla fortezza ottagonale di Castel del Monte in Puglia); per la data milanese sono stati selezionati due autori molto cari al direttore apulo-campano: Richard Strauss con il suo Aus Italien e Sergej Prokof’ev rappresentato dalla Quinta sinfonia in si bemolle.
Due pagine molto diverse sia per l’intenzione con cui sono state scritte sia per la prospettiva dei loro autori, dato che la «fantasia sinfonica» è l’esordio del ventiduenne Strauss sul terreno della musica a programma mentre la Sinfonia composta in un solo mese da Prokof’ev – cinquantatré anni al momento della stesura – è la testimonianza di una mano molto più matura che ha già attraversato diverse stagioni della creatività.
Ma Aus Italien non è né un tentativo alla cieca né tantomeno un esercizio di stile. Arriva dopo una Sinfonia in fa ben concepita e forse anche brillante, ma impersonale; al contrario in questo lavoro, nonostante si possa quasi toccare con mano l’influenza di Berlioz e Liszt, sono già evidenti alcuni tratti caratteristici del sinfonismo straussiano come il sentimento crudo e il gusto umoristico.
Muti ha particolare cura del tratto evocativo della partitura, un elemento che va molto al di là delle suggestioni riportate dai titoli, intendendo il poema sinfonico non come pitture sonore ma come un fatto prettamente musicale che rompe gli argini e riverbera anche su suggestioni extramusicali. Noi non vediamo il quieto paesaggio della campagna romana, ma le armonie di quinte vuote e la luce tenue dei salti d’ottava dei flauti e dell’ottavino ne evocano un’idea per non dire un’impressione: è tutto sfumato, non ci sono dei contorni netti, e il gesto di Muti celebra la sottile magia di una musica che pensando solo sé stessa evoca tenui suggestioni. I numerosi temi o frammenti tematici sgorgano con una naturalezza disarmante per poi venire riassorbiti dal tessuto orchestrale e il Maestro controlla questo paesaggio tumultuoso e mutevole con gesti tanto lineari e semplici quanto comunicativi: un cenno o anche solo un’occhiata a quello strumento sono sufficienti per ottenere un’espressione o un colore specifici, un’inflessione più cantabile, il tutto racchiuso nell’apparente grazia informale di una conversazione tra l’orchestra e il suo direttore.
Nelle Roms Ruinen, dove ogni presupposto illustrativo cede, vengono chiarite le complicate stratificazione di figure ed elementi motivici, dal gesto ascendente enunciato inizialmente dalle trombe che attraversa l’intero movimento con piccole variazioni all’elemento scalare di tre semiminime fino al perentorio do-sol-mib-do, con tutte le complicazioni imitative attraverso cui Strauss organizza il materiale; in modi quasi inspiegabili questa lettura rende nitido questo firmamento di connessioni.
Il terzo movimento – Am Strande von Sorrent – è quello in cui l’autore apre alcuni squarci sulla scrittura strumentale che la sua e altre penne avrebbero sviluppato più estensivamente negli anni seguenti, ad esempio la cesellatura colorista dei secondi violini con sordina e sulla tastiera (per di più divisi) in abbinamento con il mormorio delle sestine di trentaduesimi di ottavino, flauto e primi violini; non banale e molto oculato l’impiego degli armonici, così come quello del trillo che infonde al passaggio un colore davvero inconsueto. Sotto la direzione di Muti sono evidenti la levità e l’afflato poetico di questo Andantino dal profumo marittimo, ma quel che viene evidenziato senza clamore né retorica è quanto il momento costituisca una finestra spalancata sul futuro di Strauss e del sinfonismo mitteleuropeo.
Il Finale celebra quel gusto e quel calore partenopei come potrebbe solo un tedesco che abbia vissuto Napoli nel suo Grand Tour; con il chiassoso titolo Neapolitanisches Volksleben, è celebre anche per la causa legale che costò al compositore: Strauss basò l’intero movimento su Funiculì-Funiculà prendendola per una canzone popolare e invece era stata scritta da Luigi Denza appena nove anni prima, quindi si andò in tribunale per la mancata corrispondenza dei diritti d’autore. Globalmente, nei quattro movimenti di questo lavoro sinfonico scalpitante di irrequietezza giovanile sono gli archi ad avere la parte del leone e quelli della CSO propongono una compattezza e un nitore nel suono eccellenti: dotati di una duttilità coloristica straordinaria (basta ascoltarli nell’Andantino) in qualunque frangente lavorano come un sol uomo e non c’è mai nulla fuori posto, nemmeno la più piccola eccezione.
Le altre sezioni dell’orchestra vengono poste più in luce dalla Sinfonia n. 5 di Prokof’ev. Senza dubbio uno dei lavori in cui si percepisce maggiormente il senso di sospensione da un contesto temporale definito così come una certa emancipazione da modelli preesistenti o appresi o sviluppati nel corso della carriera. È anche una sinfonia molto adatta al nostro tempo se si tiene presente il momento e lo stato d’animo che circondano la sua stesura: completata nell’estate 1944 ed eseguita il 13 gennaio successivo, porta chiaramente in sé l’eco della guerra, ma è sorprendente come in questa Prokof’ev, per sua stessa ammissione, abbia «voluto cantare l'uomo libero e felice, la sua forza, la sua generosità e la purezza della sua anima». Questo dualismo lo si ritrova senza alcuna fatica nel primo movimento dall’incipit sereno sotto al quale si muovono piccole inquietudini fugaci: nulla di lancinante o di spaventoso, ma sufficiente per generare una tensione che diventa il motore emotivo di questo Andante, una dicotomia che viene momentaneamente superata dalla prima possente affermazione alla conclusione del movimento, che per certi versi può far pensare all’eroismo beethoveniano anche se in questo caso si lotta contro qualcosa di molto più concreto del destino.
Si potrebbe pensare quindi a un’adesione al “realismo socialista”, ma questo significherebbe equivocare il messaggio e i connotati della sinfonia meno russa e paradossalmente più tedesca del compositore. Il debito con la Germania si vede bene nell’Allegro marcato, uno Scherzo e Trio in cui fanno capolino i denti affilati del sarcasmo di Prokof’ev, e un’ottima spia del rifiuto delle indicazioni staliniste è la proposta di una scrittura curiosamente esile, dal gusto neoclassico, con la presenza incessante del tamburo militare che suona quasi come una didascalia della guerra ancora in corso.
Cambio di movimento e altro cambio totale di colore con un Adagio in cui le inquietudini sembrano acquisire maggior spessore. Il terrore del dubbio, le delizie dell’incertezza. Mentre gli archi nel registro acuto aprono voragini nell’animo, si pensa di aver smarrito la strada e il movimento conclusivo, nonostante l’indicazione di Allegro giocoso, non mette le cose del tutto a posto. Più che una parola definitiva su quanto già detto, Prokof’ev opta per una sorta di ricapitolazione di quanto emotivamente sperimentato fino a questo momento e Muti trova la chiave per svelare la direzione dell’intera sinfonia proprio in questo leggero senso di incompletezza che arriva alla fine: cantare l’uomo, si diceva, ed ecco che in tutta la sua imperfezione brilla una forte luce di umanità.
Le singole sezioni della CSO acquisiscono un nuovo rilievo individuale in questa sinfonia che in molti passi privilegia le combinazioni di solisti o di gruppi davvero ridotti, ma si perpetua la sensazione di avere davanti un organismo vivente che opera sotto una sola intelligenza.
L’esito della serata può stare in una sola parola: trionfo. Il clamore del pubblico è tale che persino il Maestro ha qualche difficoltà nell’ottenere silenzio per eseguire il bis, tanto che redarguisce la sala con un bonario «Muti!», suscitando qualche risata. In perfetto tema con il centenario pucciniano, la CSO concede il famoso "Intermezzo" della Manon Lescaut che Muti dirige con braccio assai più energico rispetto al programma. Ma il vero coup de théâtre è il secondo bis, anche questo in tema di anniversari, dato che il 27 gennaio 1901 Giuseppe Verdi si spegneva proprio a Milano; Muti propone la Sinfonia della Giovanna d’Arco ed è in questo momento che sul palco del Piermarini tra fuoco e fiamme ritorna il gesto appassionato del direttore musicale e alla Scala si esegue di nuovo Verdi come dovrebbe essere eseguito.
La recensione si riferisce al concerto del 27 gennaio 2024.
Luca Fialdini