Pianoforte | Daniil Trifonov |
Programma | |
Jean-Philippe Rameau | Suite in la min. RCT 5 |
Wolfgang Amadeus Mozart | Sonata n.12 in fa magg. K332 |
Felix Mendelssohon-Bartholdy | Variations sérieuses in re min. op.54 |
Ludwig van Beethoven | Sonata in si bem. magg. op.106 "Große Sonate für das Hammerklavier" |
In questa recensione si tenterà di raccontare il talento di Daniil Trifonov e di tesserne le lodi, ma prima di farlo è doveroso un cenno alla nuova stagione “Grandi pianisti alla Scala” che proprio il pianista di Nižnij Novgorod ha inaugurato con il recital del 31 gennaio scorso.
Rispetto all’analoga rassegna per il 2023 è stato fatto a mio parere un bel salto in avanti. Khatia Buniatishvili e Jan Lisiecki, per quanto strumentisti eccezionalmente dotati, come artisti si sono dimostrati quanto meno discutibili; il quasi ottantenne Buchbinder ha fatto quel che poteva e Pollini anche quello che non può più fare. Il solo a brillare veramente è stato Igor Levit, con un programma originale e ben calibrato e una Sonata di Liszt da incorniciare per novità del suono e della concezione d’insieme.
Il 2024, a parte il solito Pollini (intoccabile monumento nazionale) ed una Hélène Grimaud su cui spero di sciogliere una riserva personale, presenta tre giovani che sono forse quanto di meglio abbiano espresso gli anni ‘90 del secolo scorso: Trifonov, Rana, Kantorow. La meglio gioventù, si potrebbe dire, e livelli qualitativi eccezionali per perfezione e proposta di un nuovo e fresco modo di ripensare il repertorio pianistico di ogni tempo.
Con il concerto alla Scala Daniil Trifonov finalmente si è esibito in Italia dopo aver fatto non poco penare gli appassionati a causa dei concerti annullati (a quanto pare non per capriccio, ma per un fastidioso infortunio al braccio). Come Beatrice Rana e Alexander Kantorow, egli fa parte di quella ristretta schiera di giovani che hanno fatto subito dimenticare, grazie al proprio intrinseco valore, l’occasione che li ha portati alla ribalta mondiale, ossia i concorsi internazionali vinti a mani basse. Per quanto sia quasi un dettaglio ormai, si ricorderà che Trifonov vinse la medaglia d’oro al concorso Čajkovskij di Mosca, con l’assegnazione anche del Grand Prix (riconoscimento aggiuntivo ed eccezionale che verrà più tardi assegnato anche a Kantorow). Da allora Trifonov ha costruito una carriera esemplare che lo ha portato ad essere considerato uno dei più importanti pianisti della sua generazione, grazie alla sensibilità e alla profondità delle sue interpretazioni, e ad una capacità di immergersi come pochi nella musica che suona. Chi voglia farsi un’idea del pianista, troverà su YouTube una registrazione live alla Carnegie Hall di Petrouchka. Mi viene in mente questa, tra le tante reperibili, perché Trifonov appare qui più di altre volte completamente trasfigurato. Zuppo di sudore, spiritato, i fini capelli ridotti a steli gocciolanti, egli trova il modo di violentare quella musica, di sventrarne lo spartito, presentando una maschera deforme, inquietante eppure chissà come affascinante, sensuale come il richiamo di una sirena. E questo è solo uno dei tanti esempi di come il carisma di questo pianista sia in grado di ricreare un capolavoro del genere (e in verità poche cose possono essere noiose come una Petrouchka suonata in modo ordinario).
Il programma di questa serata è stato generoso, di sfolgorante bellezza, e non privo di assonanze interne dal momento che ad esempio in Rameau i six doubles della Gavotte richiamano le successive variazioni di Mendelssohn. Quest’ultimo poi è genio precoce quanto il Mozart della Sonata K 332, al quale viene accostato con un brano (appunto, le Variations sérieuses) scritto per finanziare una statua a Beethoven. Il fil rouge c’è, per quanto tenue, e di questo non ci si può che compiacere.
Sin da subito ho avuto la netta sensazione che in questo concerto non ci sarebbe stata la forza dirompente del Trifonov più audace e vertiginoso. L’artista mi è sembrato nel complesso più posato, meno eccentrico ed estremo rispetto ad alcune sue letture del passato. E tuttavia proprio la Suite RCT 5 di Rameau è stata, a mio avviso, il momento più originale e musicalmente interessante della serata. Qualche attento musicista presente in sala e dotato di orecchio assoluto ha notato che il pezzo è stato eseguito nella tonalità di la bemolle minore, quindi un semitono sotto la tonalità di impianto. Si tratta a quanto pare di una scelta che lo stesso Trifonov ha dichiarato essere dovuta al tentativo di avvicinare il timbro del pianoforte a quello del clavicembalo. Tuttavia dalle prime note dell’Allemande colpisce un fraseggio “moderno”, a mezza voce, confidenziale, con tempi rapidi e non rigidi. Trifonov sembra suonare il raffinato barocco di Rameau in modo elucubrativo e suadente, un po’ come se fosse Keith Jarrett in persona ad improvvisare (e sappiamo quanto il pianista di Allentown amasse cimentarsi con Bach…). Poche volte l’intensità del suono va oltre il mezzo forte; le armonie della Sarabande vengono rivelate in tutta la loro modernità e solo ne La triomphante si ha la sensazione di ascoltare un pezzo scritto nel XVIII secolo.
Il Mozart della Sonata K 332 è sembrato tutto sommato interlocutorio. Da una parte questa sonata è di una bellezza disinvolta e di una teatralità in qualche modo “obbligata”, che lascia meno spazio all’interprete rispetto ad altre creazioni mozartiane del genere. Per altro verso lo stesso Trifonov sembra più attento ad esaltare la bellezza dell’invenzione musicale senza aver particolarmente sviluppato un suono e un fraseggio “mozartiani”. In altre parole, egli non approccia l’opera da specialista del repertorio, il che, com’è noto, a volte rappresenta un vantaggio competitivo non da poco.
Discorso diverso per Mendelssohn, in cui Trifonov esprime una poetica ben precisa, fatta di tempi non esageratamente veloci, un suono sempre pieno, sia nel tema (e nelle sue livide riapparizioni) che nelle estatiche variazioni in maggiore. Sensualità legata al rigore: questo è il risultato che il pianista di Nižnij Novgorod porta a casa anche evitando i facili effetti che altri interpereti frequentemente sfoderano in determinati punti di quest’opera.
L’esecuzione della Hammerklavier fornisce lo spunto per il confronto con una splendida esecuzione di Beatrice Rana di poco più di un anno fa (ne scrissi su queste pagine). Se Rana è la pianista della certezza, del lucido determinismo portato fino alle estreme conseguenze, Trifonov è il pianista, anche qui, dell’ondivaga sensualità. La prima prende molto sul serio l’ispirazione che il nuovo pianoforte Broadwood diede a Beethoven, e l’esecuzione esalta i terribili meccanismi di cui è infarcita tutta la sonata, risultando nel complesso di una coerenza adamantina.
Anche in Trifonov troviamo, sempre squillante ma più comodo e con la sola mano sinistra, il gesto perentorio d’apertura della sonata. Tuttavia quella fanfara si stempera subito nelle quartine successive, luminose ma estremamente morbide. Tutto il primo tempo è condotto con questa linea programmatica: benchè il fugato dello sviluppo sia serrato ed ogni voce sia perfettamente definita e calibrata, i possenti accordi che si alternano a sinuose figurazioni non sono mai ruvidi, mentre nella coda Trifonov sembra indugiare sulle trovate timbriche beethoveniane, più che a “martellare” come sembra suggerire la scrittura. Lo Scherzo non è inferiore al primo movimento per bellezza: da ricordare in particolare per l’episodio con le terzine d’accompagnamento, sospeso in un gigantesco respiro.
L’Adagio sostenuto richiederebbe una recensione a parte. Basti dire che qui religiosità, desolazione, sensualità e umanità si fondono insieme. Si avverte anche un felice vento improvvisativo, assecondando il quale il pianista non esegue mai allo stesso modo identiche figurazioni. Trifonov, come del resto fa in tutto il concerto, indugia nella bellezza ma non cesellandola compiaciuto, alla maniera di Sokolov. La sua non è un’esecuzione di sintesi, e tuttavia la dilatazione dei tempi sembra derivare dall’intenzione di scandagliare le profondità strada facendo, con un disegno chiaro ma non predefinito.
E che, a differenza di Rana, Trifonov non si affidi ad una visione del tutto razionale di questa musica risulta evidente nella terribile fuga (Allegro risoluto). Come scrissi a suo tempo, l’esecuzione di Rana è insuperabile per la resa complessiva e non trova riscontri in altri giovani interpreti, seppur quotati. Anche dopo aver sentito Trifonov rimango della stessa idea. Al netto di una comprensibile stanchezza verso la fine, egli sembra regalare fin troppi momenti di disordine sia pur nella sontuosità di un suono enorme e lontano anni-luce dalle confidenze sussurrate di Rameau. Se l’idea del pianista russo era quella di liberare un caos informe dopo l’umanità del dolente Adagio, direi che c’è riuscito. Tuttavia – ed è l’unico dettaglio del recital che mi è piaciuto meno – in alcuni momenti la linea della fuga si è un po’ inabissata senza che ciò abbia giovato alla visione complessiva dell’opera.
Terminata l’Hammerklavier, Trifonov rientra quasi subito tra le ovazioni e in sala si diffonde a sorpresa l’inconfondibile sound di Art Tatum, qui trascrittore di una canzone di Johnny Green. Piace il fatto che, per quanto giovane (e i giovani, si sa, a volte sono terribili), egli non sia abbastanza bacchettone da ritenere che dopo “questo” Beethoven non si possa suonare altro. Ok, Trifonov non è Art Tatum. Ma del resto neanche Gulda era un Oscar Peterson, e quindi non c’è altro da aggiungere, soprattutto dopo il miracolo di un recital così eccezionale.
La recensione si riferisce al concerto del 31 gennaio 2024.
Lorenzo Cannistrà