Soprano | Marlis Petersen |
Direttore | Riccardo Chailly |
Maestro del Coro di voci bianche | Bruno Casoni |
Orchestra Filarmonica della Scala | |
Coro di Voci bianche dell'Accademia del Teatro alla Scala | |
Programma | |
Arnold Schönberg | Verklärte Nacht op 4 |
Anton Webern | Passacaglia op. 1 |
Alban Berg | Tre frammenti dal Wozzeck per soprano e orchestra op. 7 |
"Soldaten, Soldaten" | |
"Und ist kein Betrug in seinem Munde erfunden worden" | |
"Ringel, Ringel, Rosenkranz" |
A quattro giorni dal vibrante Requiem che faticheremo a dimenticare, Riccardo Chailly ritorna indoor al Piermarini con un programma radicalmente diverso, del tutto consacrato a una Seconda Scuola di Vienna tra l’espressionismo e l’inizio del cammino «verso la nuova musica». In questo senso le tre composizioni in programma sono particolarmente significative perché rappresentano altrettante soglie varcate da Schönberg e dai suoi apostoli, tre prese di posizione precise che si allontanano sensibilmente dalla koinè dell’epoca. Il tratto forse più interessante che accomuna tutti i punti del programma è il loro porsi non come netta frattura (zollette di zucchero in confronto al terzo dei Klavierstücke op. 11 di Schönberg) ma come personalissime declinazioni di idee che si muovevano già nell’aria e che in effetti hanno trovato più compiuta realizzazione nei decenni successivi.
La Verklärte Nacht op. 4 è uno dei più celebri esempi di apprezzamento tardivo, dato che all’epoca della stesura fu pure rifiutata dalla società di concerti Tonkünstlerverein, ufficialmente per un rivolto di nona proibito dalla scrittura accademica ma in realtà per il suo inaudito contenuto cromatico. Arnold Schönberg muove la sua penna entro un perimetro perfettamente normale per il 1899, quello tracciato dall’espressionismo e sottolineato dalla poesia di Richard Dehmel che costituisce il programma/pretesto per l’oggetto musicale, ma ci sono diverse novità in agguato. L’aspetto su cui conviene soffermarsi maggiormente è quello armonico, non solo perché rappresenta il più importante frutto delle fatiche di un venticinquenne, ma soprattutto in virtù della sua gestione: tecnicamente parlando, questo unico movimento di trenta minuti è in re minore e la centralità della tonalità di re è sottolineata nell’architettura nel più tradizionale dei modi, cioè chiudendo la partitura un re maggiore; all’interno di questa circolarità armonica di re si trovano regioni armoniche abbastanza ben definite – un mi maggiore introdotto da un bel pedale di dominante, un fa# maggiore o un fa maggiore, ad esempio – ma tra queste zolle e talvolta persino all’interno di esse Schönberg propone una gestione così liberamente instabile dell’argomento tonale da prefigurare concretamente un primo embrione di sospensione della tonalità, quel cruccio che conoscerà uno studio sempre più approfondito fino ad arrivare una ventina d’anni dopo alla formulazione del suo «metodo di composizione con 12 note imparentate solo le une con le altre», vale a dire la dodecafonia.
Quella presentata stasera non è la versione originale per sestetto d’archi ma la successiva versione per orchestra d’archi del 1917 revisionata nel ’43. Rispetto alla prima stesura, questa è soltanto pleonastica e ammorbidisce i profili duri che emergono nel sestetto, le asperità timbriche vengono edulcorate, l’intensità del pezzo ne risente notevolmente. Perché mai Schönberg ha pensato che fosse una buona idea creare una versione per orchestra d’archi? Semplice: è solo un modo per avere più esecuzioni e far entrare la Verklärte Nacht in più programmi, come quello che chi scrive e gli altri spettatori stanno sfogliando in attesa che Riccardo Chailly faccia il suo ingresso.
Checché se ne pensi di questa orchestrazione, non si può non ammirare la splendida compattezza degli archi della Filarmonica della Scala, la rotondità del suono, la perfetta pulizia nell’intonazione anche nei passi più rarefatti, con un’attenzione speciale per le sentite sortite solistiche della spalla Francesco De Angelis. La direzione di Chailly in questo caso è asciutta, non insegue gusti svenevoli o languide visioni: il gesto evoca tutte quelle tensioni (pre)novecentesche che caratterizzeranno in modo così radicale le pagine dei discepoli della Seconda Scuola di Vienna, sottolinea le profonde incrinature armoniche con i rapinosi passi al ponticello. Naturalmente ci sono anche momenti di alata serenità o di autentico patetismo – e non si può pensare al Sehr breit und langsam con lo splendido tema dei violoncelli – ma anche in questi casi Chailly non eccede mai e si tiene ben alla larga da facili sentimentalismi.
Molto diverso è il caso della Passacaglia op. 1. Delle tre penne di questa sera, quella di Anton Webern è sempre stata considerata quella dall’ascolto più impegnativo, il che è verissimo, ma resta è l’autore che esplicita sia operato e intenzioni del gruppo radunatosi attorno al suo maestro, sia di quanto avverrà successivamente per lo meno negli autori europei e nel primo titolo da lui selezionato per la pubblicazione sono contenute in nuce molte cose tutt’altro che scontate, basta avere la pazienza di leggerle tra le righe: il tratto distintivo di Webern è la chiarezza. Questa Passacaglia è stata scritta nel 1908 ma pubblicata soltanto nel ’22 e questo implica una scelta consapevole e ponderata, quasi a volerne fare un manifesto programmatico: rappresenta la conclusione dell’apprendistato da Schönberg – e come tale l’affermazione di una propria individualità rispetto al maestro – ma allo stesso tempo rappresenta anche l’emancipazione dalle correnti principali: nell’egemonia del tardo romanticismo Anton Webern recupera non solo una forma squisitamente barocca, ma esibisce pure un denso contrappuntismo. Il recupero delle forme antiche sarà uno degli elementi distintivi della musica di tutta la prima metà del Novecento (e, per certi versi, anche oltre gli anni ’50), mentre il contrappunto è uno dei fondamenti della dodecafonia stessa nonché una delle caratteristiche principali di Webern.
Ma ci sono altri elementi peculiari che meritano attenzione, ad esempio la grande ricerca timbrica che Chailly non manca di trattare con intelligenza, ma soprattutto con l’op. 1 il compositore enuncia chiaramente il principio costitutivo della sua musica: è una continua e costante elaborazione tematica e i concetti di frase, tema e motivo sono quelli che sorreggono l’intera esecuzione. La direzione è molto accorta nel garantire la nitidezza del tessuto orchestrale, una realtà in trasparenza attraverso cui è possibile seguire i procedimenti contrappuntistici, ma Chailly ha anche l’accortezza di dimostrare quanto sia espressiva la partitura dietro l’apparenza di una gabbia di pura razionalità. Molto ben riuscita anche la marcatura dello slancio lirico e dei lancinanti patetismi che non possono non richiamare il decadentismo viennese. Un ultimo colpo di coda prima di trarsi a parte da quel mondo.
Alban Berg, il più universalmente amato dei tre, è chiamato a chiudere il concerto e in qualche modo questa scelta rende il programma una Ringkomposition, dato che i Tre frammenti dal Wozzeck per soprano e orchestra nascono dalla stessa esigenza pratica (ed economica) della versione per orchestra d’archi della Verklärte Nacht: far circuitare il più possibile questo breve menù degustazione per favorire la messa in cartellone del Wozzeck. È senz’altro il titolo che presenta la migliore orchestrazione fa quelli proposti e la Filarmonica della Scala può finalmente dare fondo alle proprie possibilità coloristiche e concedendosi alcuni raffinatissimi intarsi, come i soli di corno e tromba all’inizio del primo estratto, le texture di arpa e celesta, il superbo incipit affidato agli archi dell’estratto dalla scena 4 del III atto, passando per gli scoppi improvvisi della banda, ninne nanne e pagine del Nuovo Testamento. È scontato che a questo punto un’attenzione particolare sia spesa tutta per Marlis Petersen, nel cui repertorio occupa una posizione preminente la musica dal Novecento fino alla contemporanea: dal debutto con la tremenda Lulu (ancora Berg!) alla Conquest of Mexico di Wolfgang Rihm, dall’Angelo di fuoco di Prokof’ev alla Phaedra di Hans Werner Henze, e ancora Die Tote Stadt di Korngold, Hamlet di Anno Schreier, Star-Child e Apparition di Crumb, per non fare che qualche esempio.
Al di là dell’intonazione, della cura esemplare del fraseggio, dell’intensità mai artificiosa dell’interpretazione, quel che colpisce di Petersen è la naturalezza con cui affronta il ruolo, nonostante si tratti solo di alcuni frammenti. Non c’è mai nulla che possa apparire nemmeno lontanamente forzato, sembra che non esista la minima difficoltà su niente, in questi frammenti di canto Petersen riesce a distillare senza mai sottolinearlo quel lirismo tipicamente viennese che Berg declina in modo personale, certo, ma è evidente da cosa il compositore abbia attinto. La ninna nanna è di una bellezza disarmante, intonata con una linearità che riesce a far dimenticare la grande complessità del pensiero di Alban Berg.
La recensione si riferisce al concerto del 27 maggio 2024.
Luca Fialdini