Boris Godunov | Ildar Abdrazakov |
Fëdor | Lilly Jørstad |
Ksenija | Anna Denisova |
Nutrice | Agnieszka Rehlis |
Vasilij Šujskij | Norbert Ernst |
Ščelkalov | Alexey Markov |
Pimen | Ain Anger |
Grigorij Otrepev | Dmitry Golovnin |
Varlaam | Stanislav Trofimov |
Misail | Alexander Kravets |
Ostessa | Maria Barakova |
Jurodivyj | Yaroslav Abaimov |
Nikitič, Capo delle guardie | Oleg Budaratskiy |
Mitjucha | Roman Astakhov |
Un boiardo di corte | Vassily Solodkyy |
Direttore | Riccardo Chailly |
Regia | Kasper Holten |
Scene | Es Devlin |
Costumi | Ida Marie Ellekilde |
Luci | Jonas Bøgh |
Video | Luke Halls |
Maestro del Coro | Alberto Malazzi |
Maestro del Coro di Voci bianche | Bruno Casoni |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala | |
Coro di Voci bianche dell'Accademia Teatro alla Scala |
Ormai da un quarto di secolo, le rappresentazioni della prima versione del Boris Godunov, risalente al 1869 e detta Ur-Boris, prevalgono di molto rispetto a quelle di partiture più vicine all’ampliamento dell’opera compiuto nel 1872 o allo spartito che Musorgskij pubblicò, nel gennaio 1874, con qualche taglio significativo rispetto alla partitura fornita al Teatro Marìinskij. Ci giocano, si capisce al volo, non soltanto preferenze di gusto e il principio della fedeltà alle intenzioni non condizionate del compositore, ma anche fatti più oggettivi: scegliendo l’Ur-Boris si risparmiano una prima donna, un basso con una parte importante, il corpo di ballo e la messinscena di uno o due quadri in più. Inoltre, si può rappresentare senza problemi il formidabile episodio detto “di San Basilio”, scartato dall’Autore durante la revisione – non sappiamo se per scelta autonoma o per adeguamento preventivo a una censura considerata inevitabile – ma divenuto un must durante il secondo Novecento: in ormai cinquantacinque anni ci è capitato di vedere, infatti, una sola realizzazione del Boris che non lo comprendesse. Convince meno lo spauracchio della durata eccessiva dell’opera nella sua forma “definitiva”: il testo pubblicato nel 1874 supera l’Ur-Boris di poco più di mezz’ora.
La prima stesura dà maggiore risalto al protagonista, ai suoi sensi di colpa e, proprio grazie al quadro “di San Basilio”, al suo contrasto insanabile con i sudditi (fu, ad esempio, un editto del Godunov, già onnipotente sebbene non ancora zar di nome, che nel 1597 privò definitivamente i contadini del diritto di cambiar padrone, fissando la servitù della gleba in Russia nella forma che manterrà per oltre due secoli e mezzo). Ma la tragedia collettiva del periodo ne esce più come una faccenda di politica interna che come il grande conflitto europeo rappresentato nel completamento dell’opera. Inoltre, grazie all’esplicito racconto del frate cronachista Pimen, poi ridotto da Musorgskij, la morte dell’ultimo figlio di Ivàn IV è attribuita in modo non ambiguo all’iniziativa di Boris, laddove nella versione finale la colpevolezza resta un poco dubbia, come è anche in sede storica: mancano infatti sia la prova, sia un movente certo del delitto, poiché il piccolo Dimitri non era riconosciuto come erede legittimo a causa dell’eccessivo numero di divorzi pregressi del padre.
Celato per oltre mezzo secolo negli archivi, l’Ur-Boris cominciò a essere rappresentato in Russia alla fine degli anni Novecentoventi, e a partire dal 1935 nel “mondo occidentale”. In Italia arrivò nel ’71, a Spoleto; Valerij Gergiev lo portò a Ravenna nell’estate del ’97 in un vecchio spettacolo dell’Opera Kirov e cinque anni dopo ne presentò a Milano, nella sede provvisoria dell’Arcimboldi, il nuovo allestimento del suo teatro, che aveva ripreso il nome di Marìinskij. Poiché dal 1869 al 1874 Musorgskij modificò alcune scene, in un caso molto profondamente, gli esecutori si prendono spesso anche una certa libertà di scegliere che testo eseguire, senza badare troppo all’appartenenza all’una o all’altra stesura. Quindi, alle prese con un titolo in cui molti non vincono la tentazione di tagliare o d’aggiungere, ci pare non poco merito della Scala avere seguìto integralmente e fedelmente un testo d’autore, utilizzando l’edizione critica di Evgenij Levašev per Schott International. Nessun gioco né carillon, quindi, né i cori al risveglio di Grigorij, né alcuna canzone tranne quella gaglioffa di Varlaàm, unico pezzo autenticamente “chiuso” della partitura.
Non taceremo la dirompente e profonda impressione causataci dal primo Ur-Boris a cui assistemmo, appunto a Ravenna un quarto di secolo fa; la accrebbe il confronto, che ci apparve sfavorevole, con la versione 1872, addizionata del “quadro di San Basilio”, vista poche settimane dopo con lo stesso direttore a Salisburgo. Ricordiamo d’essere usciti dal Teatro Alighieri esclamando: “il vero Boris è questo!”
Il testo del 1869 contiene sorprendenti, quasi visionarie intuizioni e anticipazioni drammaturgiche, armoniche, timbriche, e realizza in modo rimasto insuperato (eguagliato, forse, dal solo Debussy) l’ideale di opéra dialogué. Straordinaria è poi la capacità del compositore di condensare nei sette quadri del libretto, privi d’oscurità e incongruenze, il materiale narrativo di dieci scene (su ventitré pubblicate) dell’omonima tragedia di Puškin che ne costituisce l’ipotesto.
Il rifacimento concede qualcosa a un linguaggio che si usa definire “tradizionale” e amplia la scelta delle fonti letterarie (evidente è, a nostro, parere, la derivazione schilleriana del colloquio tra Marina e Rangoni). Resta poi una gran frottola che le due strumentazioni di Musorgskij siano non abbastanza efficaci e spettacolari: in realtà esse non richiedono più “aggiustamenti in teatro” che quelle di tanti altri operisti. Quando ci avvenne d’ascoltare in due serate consecutive, sedici anni fa a Santa Cecilia, l’Ur-Boris nella veste originale e in quella ricucitagli addosso settant’anni dopo da un grande orchestratore come Šostakovič, la nostra preferenza andò senza esitazione alla prima (strumentisti e direttore erano gli stessi).
Detto questo, non taceremo neppure che abbiamo un desiderio fortissimo di risentire in teatro Marina, Rangoni, il falso “duetto d’amore” e il quadro di Kromy (originariamente concepito e scritto come devastante conclusione dell’atto polacco). Infatti, sia per le considerazioni di budget accennate sopra, sia grazie alla straordinaria stringatezza della prima versione, dalla fine del Novecento in poi questi episodi sono divenuti, seppure in misura diversa, una rarità quasi dovunque. Non è per niente certo, d’altra parte, che essi siano stati aggiunti da Musorgskij solo perché l’opera era stata rifiutata.
In realtà, si dispone, con l’Ur-Boris e il Boris, di due capolavori pienamente vitali e ben distinti, anche se con alcune parti sovrapponibili o quasi. Il primo mancava a Milano dall’unica occasione di oltre vent’anni fa, ed è stato molto opportuno ripresentarlo. L’altro vi manca ormai dal 1981, non potendosi considerare significative, da questo punto di vista, le rappresentazioni della riscrittura rimskiana che il Bol’šoj di Mosca portò successivamente alla Scala; quindi ci auguriamo che ritorni presto.
La differenza più evidente tra gli episodi comuni alle due versioni s’incontra nel quadro dell’appartamento dello zar, terza parte dell’Ur-Boris e secondo atto del Boris 1872-74. Musorgskij, in una lettera, si disse molto soddisfatto del rifacimento del grande arioso del protagonista, che assunse una forma più vicina a quello che gli spettatori dell’epoca erano abituati ad ascoltare in teatro: indubbiamente un capo d’opera, immortalato da moltissime esecuzioni di grande rilievo. Qualcosa di simile si può dire di tutto il quadro, che fu arricchito d’episodi collaterali e d’una conclusione più articolata. Eppure, la prima stesura, nella sua scabra ed essenziale cupezza, mantiene qualcosa di più immediato, sembra seguire con maggiore sottigliezza i meandri d’una psiche tormentatissima e scolpisce un personaggio che non si contrappone al suo mondo, ma ne è l’espressione più coerente. Inoltre, solo eseguendo l’Ur-Boris è possibile presentare la figura dell’Innocente nella sua interezza e senza doversi discostare per nulla da quel che ha scritto l’autore. Va detto infine che la versione 1869 è ancora poco nota a chi non trae le proprie conoscenze operistiche dalla frequentazione diretta dei teatri; infatti la quasi totalità delle registrazioni ufficiali del titolo è dedicata al Boris rielaborato, spesso con l’aggiunta problematica del “quadro di San Basilio” (ci permettiamo ricordare la presenza in questo sito d’uno “speciale” sull’argomento, uscito già nel 2004 e ripetutamente aggiornato). Quale occasione migliore, insomma, della “prima della Scala” con la sua diffusione mediatica per far conoscere un’opera che ancora oggi può riuscire quasi “nuova”?
Va detto sùbito e chiaro che l’impegno è stato pienamente onorato dal profondo e, diremmo, ispirato studio preliminare della partitura compiuto dal maestro Riccardo Chailly e dalla sua accuratissima concertazione. Il direttore milanese ha saputo equilibrare come raramente accade la precisione e l’espressività, la fedeltà timbrica e l’efficacia teatrale. Di particolare rilievo la resa dei dettagli e dei motivi collaterali, tale da rendere ingiustificate una volta di più le comode opinioni sulla presunta debolezza dell’Autore nell’uso dell’orchestra. Segnalare alcuni passi nei quali il fraseggio di Chailly ci è sembrato particolarmente nuovo e felice (il senso di tragedia già incombente alla fine dell’Incoronazione; il breve sforzato che segna il risveglio di Grigorij, improvviso e doloroso; la sinuosa frase d’accompagnamento all’a due di Ksenija e Fëdor poco prima dell’ingresso dello zar nel quadro dell’appartamento, sottile nostalgia di serenità instabile; il sostrato orchestrale del discorso di Ščelkalov ai boiari; il progressivo alleggerirsi delle sonorità orchestrali alla fine dell’“Addio di Boris”) vuole solo proporre alcuni esempi di quella che, a nostro parere, è stata una realizzazione tale da potersi iscrivere nel novero delle più meditate ed emozionanti che il titolo di Musorgskij possa vantare in entrambe le sue versioni. Chailly, d’altra parte, ci è sembrato non caricare l’Ur-Boris di quell’evoluzione delle opinioni politiche di Musorgskij che, secondo alcuni esegèti avrebbero presieduto, ben più delle circostanze esterne, alla rielaborazione dell’opera rifiutata nel 1870. Lo stacco dei tempi non è mai affannoso e trasmette la tensione drammatica grazie all’implacabile, ma non rigido senso del ritmo. In questo modo il nucleo ideologico della prima versione dell’opera resta il contrasto tra l’esercizio “illuminato” del potere e la preesistenza d’una colpa tanto incancellabile quanto, a ben guardare, inutile. Molto importante è anche la continua capacità del maestro milanese di “respirare” con i cantanti.
Gli strumentisti dell’Orchestra del Teatro alla Scala hanno colpito per solidità d’insieme e presenza individuale. La strumentazione di Boris Godunov non dà spazio a episodi virtuosistici, ma domanda costantemente una capacità quasi cameristica di cantare senz’apparire in primo piano. Il suono voluto da Musorgskij non appare mai brillante, eppure l’efficacia emotiva dei timbri riesce grandissima. Per realizzarla si richiede capacità di sonare come solisti senza la soddisfazione d’apparire tali; gli artisti guidati da Chailly hanno dimostrato di possedere in pieno la maestria e la sobrietà necessarie.
Sotto la guida di Alberto Malazzi, il Coro del Teatro alla Scala realizza la sua parte, amplissima in quest’opera, con variegata ricchezza timbrica, assoluta precisione ritmica e grande presenza vocale e scenica. Dopo il suo ritiro, nel settembre 2021, dalla direzione del coro principale della Scala, Bruno Casoni ha mantenuto quella del Coro di Voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala, che nel “quadro di San Basilio” ha cantato in modo che diremmo perfetto la musica della turba dei monelli che deridono lo Jurodivyj.
Il protagonista Ildar Abdrazàkov dispone d’un mezzo vocale poderoso che sa dominare perfettamente. Nel quadro dell’Incoronazione presenta un Boris che passa insensibilmente dal ripiegamento introspettivo al compiacersi del potere. Nell’Appartamento, l’arioso di Boris sulle vicende del suo regno non sembra ancora sfiorato dalla premonizione dell’imminente tragedia, ma è dominato dall’ira contro il misconoscimento dei propri meriti. Il dubbio, il timore, l’odio impotente s’insinuano via via nel colloquio con Šujskij e nel finale del quadro: la voce si fa meno perentoria e acquista sfumature espressive in precedenza, ci sembra di poter dire, intenzionalmente non cercate. Il breve, disperato confronto con l’Innocente e poi l’Addio e la Morte divengono così, a nostro parere, la parte più sconvolgente dell’interpretazione del basso baschiro, con uno straordinario controllo delle mezze voci tra piano e pianissimo, pur mantenendo sempre, senza velature, una sonorità penetrante.
Anche gli altri artisti di canto hanno perfettamente risposto all’impostazione tesa e severa di Chailly.
Il basso èstone Ain Anger (seppure lievemente affaticato rispetto al ricordo che ne avevamo dallo stesso ruolo sei anni fa a Covent Garden) ha cantato il ruolo di Pimen in un modo sofferto e partecipe che ci è parso ben piú stimolante della consueta ieraticità minacciosa, rendendo in questo modo il “racconto del miracolo” il punto culminante della sua interpretazione.
Tutto il carattere sinistro, ambiguo, insinuante, intrigante di Šujskij è stato svelato dal viennese Norbert Ernst, unico cantante del cast non proveniente dalla Russia o dall’Europa orientale, con un’efficacia indimenticabile.
Alexey Markov ha cantato impeccabilmente, conferendo un insolito risalto al personaggio di Ščelkalov. Stanislav Trofimov ha creato un Varlaàm non usuale, più sconfitto dalla vita che spavaldo spaccone.
Grigorij Otrepev, il futuro falso Dimitri, che in questa versione dell’opera si trova in primo piano solo nell’invettiva contro Boris alla fine del quadro della cella di Pimen, è stato cantato con brillante sicurezza ed eccezionale risalto da Dmitry Golovnin. Un Jurodivyj di voce accattivante, che supera il gusto dell’invettiva e della vendetta in un rassegnato dolore, è stato Yaroslav Abaimov.
Roman Astakhov (Mitjucha), Maria Barakova (Ostessa), Oleg Budaratskiy (Nikitič e Capo delle guardie), Anna Denisova (Ksenija di piacevolissimo canto), Lilly Jørstad (Fëdor di convincente personalità), Alexander Kravets (Misail), Agnieszka Rehlis (Nutrice), Vassily Solodkyy (Boiardo di corte molto preciso nel suo breve racconto) hanno completato brillantemente un cast molto omogeneo.
La “produzione”, informa la locandina, è stata “ideata da Kaspar Holten ed Es Devlin", rispettivamente regista e scenografa. Lo spettacolo evita i cliché visuali di tiranni e sorveglianze totalitarie; i due quadri del prologo sembrano voler ripercorrere, per certi aspetti, i modi decorativi in voga sino a metà Novecento, ma pagano subito un certo tributo a must più recenti, come i fogli di carta strappati e la materializzazione dei ricordi infausti del protagonista, che in quest’opera è, molto prevedibilmente, un ragazzino macchiato di sangue, quasi sempre visibile dall’Incoronazione in poi, una sorta di Doppelgänger del rimorso. Ma la sua capacità evocativa ci è sembrata esaurirsi quasi completamente nello sguardo che Boris gli rivolge allontanandosi alla fine dell’Incoronazione. Durante l’Addio e la Morte, il tema della vittima giovane delle ambizioni di potere sarà anzi triplicato grazie ai “doppi” insanguinati dei due figli di Boris, mentre l’interprete di Grigorij prima guarda dall’alto e poi s’aggira in mezzo a loro (per fortuna il canto e il gioco scenico di Abdrazakov unito alla direzione di Chailly evitano che si presti molta attenzione a queste cose). A nostro parere, l’addensamento sul palcoscenico di figure non partecipanti all’azione, specie nel quadro di San Basilio e nel finale ma già in quello dell’appartamento, diviene a tratti farraginoso e si riduce al mero tentativo di rendere visivamente esplicito quel che è già deducibile in dettaglio dal dialogo cantato e dalla mimica dei personaggi propriamente detti. In questo senso, anche la risoluzione del quadro dell’Osteria in una sorta d’inverosimile e anacronistica Barrière d’Enfer, con la presenza sin dall’inizio di guardie confinarie a un tempo violente e distratte, finisce per cedere gravemente, in termini d’efficacia spettacolare, alla scena di desolato isolamento concepita da Musorgskij. Ed è un peccato, perché Holten si dimostra, per contro, bravissimo nel curare la mimica dei personaggi.
L’impianto scenico di Es Devlin è d’impegnativa ricchezza. Lo domina una grande mappa della Russia, allusione all’attività di cartografo del figlio di Boris, Fëdor. È divisa in diversi pannelli che possono essere accartocciati in alto sul lato destro del palcoscenico, come all’inizio e alla fine dell’opera. A ribadire il concetto serve anche un piccolo globo portatile illuminato dall’interno, sul quale fanno bella mostra di sé terre del tutto ignote al tempo della vicenda rappresentata. Fëdor se ne bea. Un grande letto, nella scena dell’appartamento, allude alle stanze private di Ksenja, in cui le viene ingiunto di ritirarsi e scomparire dalla vicenda (invece la si continuerà a vedere sino alla fine). Il letto rimarrà presente sino alla fine dello spettacolo e a un certo punto diventa il luogo in cui Boris soffre e viene spiato da Šujskij.
Grande ruolo nel definire gli ambienti e nel sottolineare le azioni hanno le luci, tecnicamente perfette, di Jonas Bøgh e i video di Luke Halls.
La presentazione dello spettacolo informa che “i costumi della danese Ida Marie Ellekilde attraversano la storia spaziando con spirito creativo e non filologico dai tempi di Boris Godunov a quelli di Puškin, di Musorgskij sino ad alludere al presente”. All’atto pratico, questo ha significato che i costumi del coro e di Boris nelle due scene del prologo (costumi d’ottima fattura, sia ben chiaro) sarebbero stati accettabili anche ai tempi di Šaljapin, e che nella seconda parte dello spettacolo Boris è comparso in giacca e cravatta, cingendo però una fascia, ovvio simbolo di potere. Poiché i due gruppi di scene sono divisi non solo dall’intervallo, ma anche da sette anni di storia, la giustificazione oggettiva balza agli occhi.
Tredici minuti d’applausi finali hanno premiato tutti gl’interpreti, con un netto successo personale di Ildar Abdrazakov. Non abbiamo percepito alcun segno di dissenso.
Con un senso che diremmo gavazzeniano dell’understatement, il maestro Chailly ha preferito non comparire mai da solo. A nostro parere, la realizzazione musicale di questo Ur-Boris avrebbe meritato mezz’ora di battimani. La vita dello spettacolo comincerà dalla “vera” prima del 10 dicembre.
La recensione si riferisce alla “serata inaugurale” del 7 dicembre 2022.
Vittorio Mascherpa