Otello | Arsen Soghomonian |
Desdemona | Zarina Abaeva |
Jago | Luca Salsi |
Cassio | Joseph Dahdah |
Roderigo | Francesco Pittari |
Lodovico | Adriano Gramigni |
Montano | Eduardo Martinez |
Emilia | Eleonora Filipponi |
Un araldo | Matteo Mancini |
Direttore | Zubin Mehta |
Regia | Valerio Binasco |
Scene | Guido Fiorato |
Costumi | Gianluca Falaschi |
Luci | Pasquale Mari |
Maestro del Coro | Lorenzo Fratini |
Maestro del Coro delle voci bianche | Sara Matteucci |
Orchestra, Coro e Coro delle voci bianche del Maggio Musicale Fiorentino |
Il cartellone operistico dell'85° Maggio Musicale Fiorentino prevedeva, sin da prima dell'avvicedamento al vertice della fondazione e conseguente ridimensionamento del programma, la ripresa della produzione dell'Otello verdiano andata in scena in piena pandemia, in un teatro blindato e con pochi rappresentanti della stampa presenti in sala. Di quell'unica rappresentazione del 30 novembre 2020, che fu filmata e diffusa in leggera differita da Rai 5, chi scrive fornì cronaca su queste pagine, avendo avuto l'opportunità di assistere alla recita dal vivo.
Al momento della (prima) presentazione del Festival le opere previste erano Don Giovanni (con nuova produzione, poi sostituita con una proveniente da Spoleto), i Maestri cantori (poi sostituiti da Falstaff) e, appunto, questo Otello, che avrebbe dovuto conservare il protagonista Fabio Sartori e lo Jago di Luca Salsi visti nella recita del 2020, con la novità di Anastasia Bartoli come Desdemona. Le defezioni di tenore e soprano hanno portato in locandina due nomi dell'est europeo non molto conosciuti in Italia (ma della stessa agenzia di Sartori e Bartoli), che si sono ascoltati con curiosità e non hanno demeritato.
Ma prima delle prestazioni vocali merita qualche nota l'allestimento di Valerio Binasco, che lasciò poco il segno nella recita trasmessa in streaming e che, nonostante alcuni affinamenti che lo hanno indubbiamente migliorato, conferma le perplessità che suscitò allora. L'impianto scenico fisso e sinistro di Guido Fiorato, che vorrebbe evocare una città degradata, sofferente e sotto assedio, suggerisce forse più un terzo atto di Rigoletto, riutilizzato senza motivo e tanto per dare un'impronta originale allo spettacolo. La necessità di creare gli ambienti diversi richiesti dalla vicenda - che del resto solo in parte si svolge all'aperto - impone di introdurre degli elementi scenici posticci che confondono le idee (non meno dei costumi di Gianluca Falaschi di fogge varie e non sempre indovinati) sulla lettura registica, per la cui analisi più approfondita si rimanda alle note nella recensione del 2020.
Senza le limitazioni dei mesi della pandemia e gli obblighi di distanziamento degli artisti le masse vengono stavolta mosse in modo relativamente più dinamico ed efficace e sono state fortunatamente tolte le brutte decorazioni del terzo atto, su cui allora si ebbe da ridire, lasciando solo i più tradizionali stendardi della Serenissima.
La direzione di Zubin Mehta si conferma nel solco di quanto udito la sera del debutto della produzione e di quanto il direttore emerito a vita dell'Orchestra del Maggio ha fatto ascoltare negli ultimi anni ed è improntata ad una solennità e monumentalità sonora accentuata dalla dilatazione dei tempi. In questa occasione, tuttavia, queste caratteristiche non sono parse tanto marcate da rallentare il passo teatrale (salvo in alcune scene) come si è invece udito in altre sue recenti interpretazioni verdiane. Otello non è La traviata e può tollerare meglio la carenza di pulsione e qualche allargamento di troppo, se compensati da una resa maiuscola della compagine del Maggio che mette in evidenza la preziosa orchestrazione del Verdi dell'estrema maturità e produce suoni compatti e levigati, di limpida, marmorea e grandiosa bellezza. Una grandiosità che la classe di Mehta porta sempre al massimo possibile del volume, senza mai eccedere.
Il Coro diretto da Lorenzo Fratini fa il paio con i colleghi orchestrali per precisione e ricchezza di colori.
Il solo Luca Salsi, come si accennava, proveniva dalla recita del 2020 e in questa occasione ripropone il suo Jago giocato sulla ricchezza di accenti, sulla dizione nitida e su un fraseggio tanto curato quanto analitico con cui tratteggia un vilain lucidamente e ossessivamente determinato. Lo smalto sfoggiato in questa occasione è notevole e lo porta a mostrare un po' di più la conosciuta potenza vocale, anche se non gli impedisce di restare occasionalmente vittima dei tempi dilatati di Mehta che talvolta mettono a dura prova la tenuta dei fiati del baritono e dei due principali colleghi.
Il tenore armeno Arsen Soghomonian affronta il ruolo iconico del moro con encomiabile sicurezza lungo tutti i quattro atti, con veniali cautele su un paio di acuti, sfoggiando una buona padronanza della lingua italiana e voce robusta, dal colore naturalmente scuro e perciò adatta ad Otello, di cui non cerca i tratti più bellicosi e belluini quanto più quelli di una sofferenza interiorizzata che trova sfogo nel raptus omicida finale. Un protagonista sostanzialmente all'altezza del compito, forse di personalità non travolgente, che era stato già interprete del ruolo del titolo al Verdi di Trieste lo scorso anno (qui la recensione di Paolo Bullo).
Anche la russa Zarina Abaeva frequenta relativamente di rado i palcoscenici italiani (ma è stata di recente Butterfly a Bologna, qui la recensione di Silvano Capecchi) e, come per il collega, si nota una certa convenzionalità negli accenti, nel suo caso unita a un modo di porgere le frasi vecchio stile e ad una presenza scenica che delinea una protagonista femminile un po' troppo matura e matronale. In controtendenza, dunque, rispetto all'evoluzione interpretativa del personaggio, ma una volta tanto ad avviso di chi scrive non fa male riascoltare una Desdemona cantata con voce rotonda nei centri, sonora e ben proiettata, dall'ampia cavata (che sarà anche demodé, ma che nel rigoglioso orchestrale del tardo Verdi svetta meglio di tanti soprani lirici dalla prima ottava ovattata che è dato sentire). A maggior ragione quando, come nel caso della Abaeva, si ascoltano anche pregevoli note emesse in piano. E pazienza per qualche occasionale tensione in acuto.
Bene a fuoco, dopo un inizio sotto tono, Joseph Dahdah in una prova in crescendo come Cassio, dalla figura scenica giovanile e disinvolta.
Efficacemente distribuite le parti di fianco, come è regola a Firenze, con Eleonora Filipponi veemente Emilia e il Lodovico di Adriano Gramigni, il Montano di Eduardo Martinez, il Roderigo di Francesco Pittari e l'Araldo di Matteo Mancini che si distinguono per precisione e musicalità.
Franco successo tributato alla produzione da una Sala grande del Teatro del Maggio ben gremita, con consueta festa per Mehta, applausi caldi ai protagonisti e di circostanza per i responsabili della parte visiva.
La recensione si riferisce alla prima del 20 maggio 2023.
Fabrizio Moschini