Simon-Pierre Bestion ama rimescolare le carte. È un giovane direttore difficile da definire, sembra rifuggire volontariamente da ogni classificazione. Nasce clavicembalista e presto fonda un ensemble fondendo un complesso strumentale e un coro. La sua creatura si chiama La Tempète, e di sicuro non annoia, votata com’è allo stupore. Si esprime più frequentemente nell’ambito della musica rinascimentale e barocca, ma ama molto anche il repertorio del Novecento e la musica contemporanea. Appare spesso spinto da una personale sensibilità, per questo non manca di suscitare attenzione. La scelta dello Stabat Mater, ad esempio, risale alla sua prima età, quando cantò la versione di Antonin Dvořák tra le fila del coro. Tra i tanti e celebrati compositori di ogni tempo che vi si cimentarono, sceglie e riassembla in ordine misto Domenico Scarlatti, Antonin Dvořák e una sequenza gregoriana presa dal Graduale Triplex di Solesmes. Quest’ultima è l’unica opera che viene eseguita nella sua interezza, senza essere frammentata e alternata alle altre due. Aggiunge a toglie. A Domenico Scarlatti aggiunge gli archi, ad Antonin Dvořák toglie tutta l’orchestra fuorché gli archi, per i quali trascrive personalmente l’intera partitura, con la presenza costante del pianoforte. Quest’ultimo strumento era protagonista della prima stesura dello Stabat Mater, composto dal boemo nel 1876 dopo la morte della figlia. L’orchestrazione avvenne successivamente, ma in origine nasce per piano, soli e coro. Bestion toglie qualche numero per simmetria, con una durata di circa un’ora e mezza di musica, per un doppio cd. Afferma di avvertire nelle due versioni la stessa espressione del dolore, oltre a indicare altre coincidenze arcane.
L’operazione, complessa e delicata, induce a nuove riflessioni unite a numerose conferme. La distanza temporale e formale tra Scarlatti e Dvořák è ridotta da un organico strumentale molto simile. Diverso è il temperamento, più composto Scarlatti che filtra il pathos attraverso un armamentario tecnico di rara perfezione, mentre Dvořák esprime un crescendo emotivo cui è difficile resistere. L’asciuttezza dell’organico riconduce ad un dolore intimo, che conferisce colori diversi ad una partitura che, nella consueta versione per grande orchestra, travolge e commuove come poche altre.
In questo contesto che tocca nel profondo, la sequenza gregoriana si pone come una cronaca cruda e austera, in cui le acciaccature appena accennate dei cantori riportano ad un compianto arcano.
In questi Stabat nulla è come dovrebbe essere e poche cose solo al loro posto, però funziona. È un esperimento eccentrico ma fondato, per questo apre a nuove riflessioni e crea interesse senza destabilizzare.
La resa musicale è in linea con il progetto, ogni tanto qualcosa sembra imperfetto ma solo per un attimo, poi tutto si appiana e anche i piccoli scostamenti prendono senso.
L’incisione è ottima.
Daniela Goldoni