Il prossimo 17 marzo Vincenzo Milletarì dirigerà per la prima volta l'Orchestra Sinfonica di Milano presso l'Auditorium del capoluogo lombardo in un impegnativo concerto intitolato "Il nuovo mondo". All'ancor giovane maestro pugliese che abbiamo apprezzato sul podio del Donizetti Festival 2022, dove ha diretto L'aio nell'imbarazzo (qui la nostra recensione) che vedeva fra i protagonisti Alex Esposito e Alessandro Corbelli, dopo essersi fatto apprezzare soprattutto in alcuni paesi del Nord Europa, gli si stanno presentando alcune occasioni per distinguersi anche in Italia.
M° Milletarì, innanzi tutto, ci descriverebbe il programma del concerto che si appresta a dirigere qui a Milano?
A Milano suoneremo questa settimana un programma estremamente interessante perché ci porta a dialogare con il pubblico su diversi livelli.
Il primo brano è “Phoenix” di Fazil Say, un concerto per orchestra e pianoforte a quattro mani composto per i fratelli Jussen che saranno anche i solisti di questo concerto. È la prima italiana di questo concerto, un pezzo interessantissimo in cui il dialogo tra orchestra e pianoforte è alla pari. Lo stile compositivo di Say è estremamente personale e di rara bellezza. Il compositore attinge a piene mani dalle sonorità turche, ed ecco il perché di un uso importante delle percussioni, di melodie orientaleggianti ma anche di importanti elementi stilistici europei. Un linguaggio musicale a cavallo tra culture diverse.
La musica si esprime attraverso vari stili, da quello cromatico a quello romantico, passando per pagine sperimentali, e come sempre con Say, il pianoforte diventa strumento con sonorità caleidoscopiche e con un virtuosismo al limite del realizzabile.
Accostiamo a questo pezzo che unisce due mondi come quello occidentale e quello orientale il brano romantico per eccellenza che parla di mondi nuovi, ovvero la Sinfonia n. 9 di Antonin Dvořák.
Come sappiamo, le melodie di questa sinfonia sono state enormemente influenzate dal soggiorno americano del compositore, ed infatti, la prima esecuzione si tenne a New York. Nonostante questo mi piace credere alle parole di tutti i miei amici cechi, che dicono convintamente quanto questa sinfonia sia diversa dalle altre ma nonostante tutto, sia profondamente boema, perciò mitteleuropea e vicina anche alle nostre radici romantiche.
Come ho anticipato nella breve introduzione, nel corso dei suoi primi anni di carriera alcune importanti opportunità le sono giunte dal Nord Europa; questo non vuol dire che in Italia non la si conoscesse ma ci preme sottolineare che forse all'estero sono stati un po' più lungimiranti nel comprendere le sue potenzialità. Ci racconterebbe come ha mosso i suoi primi passi sul podio e come le sono state offerte le prime occasioni professionali?
Mi sento felicemente e orgogliosamente italiano ma la mia educazione è iniziata e finita nell’Europa settentrionale. Mi sono trasferito a Copenhagen quando avevo 23 anni, e l'Accademia Reale ha investito in maniera importante sulla mia formazione, e come tutti i paesi del nord Europa, è stata un'educazione fortemente incentrata sulla pratica. Per quattro anni ho diretto ogni anno tutte le orchestre del paese, all'interno del programma formativo, e le prime occasioni professionali sono proprio nate da quei concerti in cui mi alternavo con i miei altri due compagni di classe sul podio. I primi concerti in provincia, poi le prime recite al teatro di Copenhagen, e da lì è partito tutto.
Secondo lei che cosa noi italiani dovremmo ammirare e magari apprendere dall'organizzazione dei teatri che lei ha frequentato in Europa?
Sono sistemi e organizzazioni completamente diverse e perciò non credo ci sia da invidiare nulla.
In Italia i teatri d'opera funzionano su un sistema “di stagione”, con un numero limitato di recite, dove si riesce a fare anche un lavoro più approfondito in ogni produzione, non essendoci quasi mai più allestimenti in contemporanea all'interno dello stesso teatro. Nei teatri esteri “di repertorio” invece i ritmi sono decisamente più serrati, i periodi di prova più ristretti ma il numero di aperture di palcoscenico sono maggiori.
Sono due modi di lavorare differenti, entrambi con risultati diversi che intercettano, a livello internazionale, anche dei pubblici diversi. Ci sono manager di teatri italiani che vorrebbero avere più recite alla settimana, e manager di teatri esteri che ne vorrebbero meno, e questo mi ha fatto capire, che alla fine dei conti, non c'è un modo dei due che sia migliore dell'altro.
Ma facciamo qualche passo indietro: come si è avvicinato alla musica e successivamente alla direzione? Qualcuno in famiglia l'ha indirizzata verso questa strada?
È stato un percorso totalmente casuale e tardivo. Nessuno in famiglia sa leggere un pentagramma ed io non ero un’eccezione fino all’età di 12 anni. Mi sono innamorato del jazz da adolescente, di quello sperimentale e poco melodico; ho iniziato poi a studiare il clarinetto, e sono andato a ritroso. Da adolescente ascoltavo Charlie Parker, Luigi Nono e Alban Berg, adesso sono felice con Mendelssohn.
In famiglia l'hanno comunque assecondata nella sua scelta?
Fortunatamente sì! Mi sono diplomato al liceo durante la grande crisi del 2009, quando anche una laurea in ingegneria sembrava un percorso incerto. I miei genitori mi hanno fatto rischiare e fare qualcosa che amavo profondamente.
Chi fra i suoi famigliari è oggi il suo principale sostenitore?
Mia sorella Francesca; mi segue spessissimo e mi fa piacere vederla in barcaccia mentre dirigo o nei camerini durante le pause dei concerti.
Sappiamo che, fra gli altri, si è perfezionato anche con il M° Muti. Ci racconta questa privilegiata esperienza formativa?
Quest’intervista diventerebbe una raccolta in 12 volumi, se dovessi raccontare tutto. Il maestro Muti è stato una rivelazione. Ma la cosa più interessante è che ho realizzato quanto sono stato fortunato soltanto col tempo. Ancora adesso, dopo quasi 8 anni, comprendo meglio alcune parole, alcune sfumature del gesto, alcuni modi di porgere il suono. Sono stati mesi unici che porterò sempre nel cuore. E le confesso, che ancora adesso, che sono ben oltre la mia cinquantesima replica di Rigoletto, sperimento nuove cose, nuovi gesti tecnici che ho visto quasi dieci anni fa.
Oltre al M° Muti ha dei riferimenti tra i grandi direttori del passato ed eventualmente quali sono le caratteristiche che ammira di alcune grandi bacchette?
Il Maestro Muti è stato un'epifania quando ero un giovanissimo studente di direzione; ho continuato poi il mio percorso col Maestro Morandi negli anni successivi, quando ho imparato il mestiere. Devo tantissimo a lui e gli sarò riconoscente a vita.
Ovviamente poi c'è Claudio Abbado che seguivo da ragazzino in giro per l'Italia e il Dio della direzione d'orchestra: Herbert von Karajan. Ho dormito nella mia cameretta di adolescente qualche giorno fa, ci sono ancora tutte le loro foto.
All'estero il repertorio sinfonico proposto dai teatri è più ampio e diffuso rispetto all'Italia. Questa peculiarità è stata un'opportunità nel corso delle sue esperienze nei teatri del Nord Europa oppure il direttore italiano viene comunque "etichettato" come direttore d'opera?
Il direttore italiano credo sia sempre stato storicamente un direttore votato all'opera, e non la vedo come una cosa negativa. Il repertorio italiano è fondamentalmente un repertorio operistico e dobbiamo esserne orgogliosi. Tutti i grandi maestri italiani del passato si sono confrontati col repertorio operistico ad altissimi livelli e questa storia, questa tradizione ci rende molto rispettati in giro per il mondo. Ogni sera, probabilmente metà della musica classica eseguita in giro per il mondo è stata scritta da compositori italiani e basta vedere le statistiche su Operabase dei titoli più eseguiti per capire quanto sia importante la musica italiana al mondo.
Personalmente sono felice di dirigere questa settimana Dvořák tanto quanto La bohème ad aprile... non penso ad altro.
Ma quali sono le sue preferenze di repertorio? Hai un compositore preferito?
Io amo profondamente il teatro anche se tutta la mia formazione e tutta la mia infanzia sono state incentrate quasi totalmente sul repertorio sinfonico. Nel mio cuore ci sono Giuseppe Verdi e Čajkovskij, che amo e riverisco. Non mi stanco mai di dirigere la loro musica.
Cosa sogna di dirigere in futuro?
Nella lista dei desideri c'è tanto Richard Strauss dopo che ho diretto per la prima volta Ariadne auf Naxos qualche mese fa e un altro Richard... Wagner. Sono anche perdutamente innamorato del repertorio sinfonico tedesco e vorrei dedicarmi nei prossimi anni a Schumann e Brahms in maniera più costante.
Dopo Milano quali saranno i suoi impegni futuri?
Sarò a Vienna con i Tonkünstler per tre concerti sinfonici e dirigerò nuovamente (non vedo l'ora) un compositore a cui sono molto legato avendo vissuto e studiato in Danimarca: Carl Nielsen.
In primavera tornerò a Göteborg in Svezia per La bohème e poi l’Orchestra della Toscana con Weber, Strauss, Mozart e una nuova composizione di Filippo Del Corno. A giugno aprirò il Festival di Bad Kissingen con l'Orchestra Sinfonica di Milano.
La sua impegnativa attività professionale le lascia il tempo per qualche hobby?
Certo, anche se sono troppe le cose che vorrei fare.
Quest'anno vorrei dedicarlo alla vela sportiva, che è una passione che dura da anni ma che avevo messo da parte; ho ricomprato tutto e dopo Vienna riprenderò.
Poi, se riuscirò mai a fermarmi qualche mese, vorrei prendere il brevetto di volo, è una cosa che mi sta frullando in testa da ormai qualche anno e il fatto che Daniel Harding sia pilota AirFrance e sia anche direttore ha seppellito tutti i dubbi a riguardo.
Ha mai nostalgia della sua terra?
Della Puglia? Tanto... ma fortunatamente questo lavoro ti porta ad avere tante piccole vite in giro per il mondo che vivi per qualche mese all'anno e poi tornano in stand-by.
Ho cene con amici programmate ad Oslo, un giro in barca a Copenhagen e una passeggiata col primo violoncello e il suo Husky a Stoccolma in sospeso.
Grazie per la piacevole chiacchierata.
Grazie a lei, è stato un piacere.
Danilo Boaretto