Già enfant prodige (con Le nozze di Figaro appena ventiquatrenne è stato il più giovane direttore d’orchestra scaligero), da quasi dieci anni guida della Filarmonica di Tokyo, direttore musicale del Teatro Regio di Torino dallo scorso gennaio, neopapà di Alma dallo scorso aprile, abbiamo incontrato il trentottenne Andrea Battistoni per un breve colloquio a ridosso della nuova produzione di Andrea Chenier al Regio.
Con il debutto a ventitré anni nel 2010 con una Bohème al Filarmonico di Verona, lei è stato un enfant prodige della bacchetta. La sua formazione è stata però strumentale come violoncellista. Come è avvenuto il passaggio sul podio?
Sono cresciuto in un ambiente familiare musicale. Mia madre era pianista e mio fratello Pietro è un violinista specializzato nel repertorio barocco. Mi sono diplomato in violoncello ma confesso che non mi ritrovavo nel ruolo di solista; mi sono innamorato dell’orchestra come strumento e della figura del direttore d’orchestra come quella di colui il quale la suona. Uno strumento un po’ particolare perché composto da più persone e quindi impossibile per uno studio domestico come avviene invece generalmente per gli altri musicisti. Come esecutore mi sento a mio agio in una dimensione più strutturata quale può essere quella di un teatro o di un’orchestra sinfonica. Quindi l’approdo alla direzione d’orchestra è avvenuto in modo molto naturale e veloce. Anche perché il lavoro del direttore si affina nel tempo e quindi è un bene poter iniziare da giovani. Ammetto però che avverto la mancanza della dimensione cameristica del fare musica.
A proposito di punti di riferimento, avevo letto anni fa in un’intervista del suo amore per Toscanini. Un nome significativo, soprattutto qui al Regio dove oltre un secolo fa la anticipò nel ruolo di direttore musicale…
Beh certamente Toscanini è ancora oggi un punto di riferimento. A prescindere dall’indubbio valore morale e civile della figura, le sue interpretazioni sono sempre attuali: in lui si percepiscono un impeto tipicamente italiano e allo stesso tempo un’attenzione già filologica al dato testuale della partitura. Essere direttore musicale di questo teatro è per me motivo di orgoglio e ho trovato sin da subito un ottimo rapporto di collaborazione sia con le altre figure apicali, il Sovrintendente (Mathieu Jouvine) e il Direttore artistico (Cristiano Sandri), sia con l’orchestra e il coro del Regio.
Da dove nasce il suo interesse per il Verismo?
Fin da ragazzo ascoltando i dischi mi ha incuriosito quel periodo musicale. Una curiosità non solo per gli autori e i titoli ma anche per i soggetti e le vicende di quelle opere. Si tratta di un repertorio purtroppo un po’ trascurato negli ultimi decenni, soprattutto in Italia. Le ragioni sono molteplici e derivano in certa misura anche da considerazioni politiche. Le avanguardie e molti intellettuali accusavano infatti gli autori veristi come Mascagni, Cilea Giordano e lo stesso Puccini di scrivere lavori per il palato facile della borghesia di inizio Novecento. É invece straordinario come si abbia a che fare con partiture rilevanti anche per la scrittura orchestrale e per la spiccata teatralità: aspetti che le rendono a me particolarmente allettanti. Penso che esplorare questo tipo di repertorio possa costituire oggi un’occasione per superare certi pregiudizi e ricucire i rapporti con un pubblico il più vasto possibile.
Così sarà dunque per la Francesca di Rimini di Zandonai che aprirà la prossima stagione del Regio…
Si e lo è in questi giorni anche per Andrea Chenier, partitura estremamente raffinata ed impegnativa per l’orchestra non meno per i cantanti. Il libretto di Illica poi è bellissimo, storicamente corretto e molto dettagliato nei particolari. Più in generale a proposito di Verismo c’è una miriade di autori interessanti che meritano una riscoperta. Titoli e compositori che gravitano attorno a Puccini e al titolo che chiude il grande repertorio operistico, Turandot.
Proprio riferendosi alla musica di Andrea Chenier, Gavazzeni, con uno dei suoi caratteristici neologismi, parlava di “musicazione del gesto”. Questo per dire che la scrittura di Giordano si rapporta in modo molto aderente al testo e ai personaggi…
Ho una stima particolare per Gavazzeni e per quello che ha fatto per la musica italiana del Novecento. Condivido pienamente il suo giudizio e penso alla straordinaria forza narrativa di Giordano. C’è un senso del teatro che è già cinematografico. É significativo il fatto che l’opera andò per la prima volta in scena nella primavera del 1896 e appena pochi mesi prima, con la prima proiezione cinematografica pubblica al Grand Café del Boulevard des Capucines di Parigi, era nato il cinema. Una forma di spettacolo nuova – della quale si appassionerà lo stesso Giordano – destinata a soppiantare di lì a pochi decenni il melodramma quale intrattenimento popolare.
Ho avuto modo di vedere Tosca da lei diretta a Monaco di Baviera lo scorso anno con la regia di Kornél Mundruczó nella quale Angelotti era un affiliato delle Brigate Rosse e Cavaradossi trasformato da pittore in regista con un chiaro riferimento a Pier Paolo Pasolini. Come si trova con i registi?
In alcuni casi può essere difficile lavorare con loro. Lei ha fatto riferimento ad uno spettacolo emblematico di un teatro di regia tedesco spinto agli eccessi. Spesso i registi cercano celebrità con le loro trovate e non è raro che capiti al direttore di concentrarsi unicamente sulla propria responsabilità musicale senza pensare a quanto avviene in scena. Per fortuna esistono numerose eccezioni. Siamo a Torino e penso in primo luogo a Davide Livermoore con il quale ho felicemente lavorato in numerose occasioni e ora con Giancarlo Del Monaco artefice di un Andrea Chenier privato di ogni tratto oleografico e rinvigorito nella forza narrativa.
C’è una partitura che non ha ancora diretto e sogna di affrontare?
Sono attratto da Wagner e in particolare dal Lohengrin.
In effetti Wagner è un nome che purtroppo latita nei cartelloni del Regio. L’ultimo Ring risale al 1989 e dire che Torino era considerata un tempo una città wagneriana….
Fare il Ring sarebbe un grande progetto… Vedremo, se son rose fioriranno.
Lodovico Buscatti