Con dolore appresi, lo scorso marzo a Kassel, che Wolfgang Rihm non aveva potuto presenziare per ragioni di salute alla nuova messinscena della sua Hamletmaschine, “teatro musicale in cinque parti”. La notizia non era di quelle che lasciano spazio a grandi speranze, e il musicista nato a Karlsruhe nel 1952 è morto lo scorso 27 luglio, dopo anni di malattia.
Rihm fu compositore non solo versatile, ma fecondissimo: il suo catalogo, accessibile nel sito della casa Universal Edition di Vienna, comprende composizioni strumentali e vocali d’ogni genere, per un totale di oltre quattrocento. La data piú lontana è il 1966, con un Quartetto per archi in sol minore, quella piú recente il 2022, con due brevi pezzi per violoncello e pianoforte. Una presenza molto significativa è quella dei lavori su testi liturgici cristiani in tedesco e latino, dai Fragmenta Passionis e altri cori a cappella risalenti al 1968 fino allo Stabat mater per baritono e viola, presentato meno di quattro anni fa alla Philharmonie berlinese dai dedicatari Christian Gerhaher e Tabea Zimmermann.
Nel 1972 Rihm ottenne la humanistische Abitur, equivalente della nostra maturità classica, e superò gli esami di stato in Teoria e Composizione presso la Hochschule für Musik della sua città natale. Sul proprio maestro Eugen Werner Velte scrisse poi parole di profonda stima e simpatia. Ne ebbe come decisivo imprinting anche la consapevolezza della continuità storica da Beethoven alla cosiddetta “seconda scuola di Vienna”. A vent’anni il suo futuro di musicista era deciso, e non lo abbandonò mai l’interesse per le letterature e le arti figurative. Ebbe poi la guida di Karlheinz Stockhausen e frequentò i Ferienkurse di Darmstadt, dove fece in tempo a conoscere anche Bruno Maderna. Ma il suo rapporto con le “avanguardie” divenne presto piú problematico di quanto esse erano ormai divise. Risonanza ben oltre l’ambiente specialistico ottenne nel 1974 Sektor IV da Morphonie, ampia composizione per quartetto d’archi e grande orchestra presentata al Festival di Donaueschingen e accolta anche da tale messe d’insulti reazionari (s’incontra persino un “musica fecale”) che neppure lo strutturalismo piú ortodosso poté prendere le distanze dal pezzo nonostante la sua “inattuale” ricchezza emotiva e la palese volontà d’espressione. Cinque anni dopo, invece, quando Jakob Lenz, sua seconda “opera da camera” dopo Faust und Yorick, raggiunse la scena ad Amburgo, la potenza drammatica unita a una narrazione chiaramente definita, e fors’anche la solida ampiezza del successo, spinsero a parlare di “neoromanticismo”. Però questa facile “accusa” fu vinta dalla constatazione che l’uso piú libero dei mezzi espressivi portava il segno, oltre che d’una sicura consapevolezza storica, di un’individualità originale e robusta, tanto padrona del “mestiere” quanto determinata nella volontà musorgskiana di “comunicazione con gli altri uomini”. Rihm ebbe poi a scrivere: “Fare arte significa fare di sé stessi un bersaglio. Bisogna sopportarlo, ci si deve abbandonare. Per essere inattaccabili, bisogna diventare critici o direttori di banca. Ma non ci si può permettere di diventare artisti”.
Dopo il trionfo di Amburgo, seguíto in quarantacinque anni da centinaia di riprese, Rihm divenne uno degli autori della prestigiosa Universal Edition, che in questi giorni elenca tra i suoi lavori piú importanti, oltre ovviamente a Jakob Lenz e Hamletmaschine, “le opere Die Eroberung von Mexico [1992], Dionysos [2010, ma già da gran tempo work in progress], Proserpina [2008, da Goethe] e Das Gehege [2006, insolita allegoria della riunificazione tedesca commissionata come prima parte d’uno spettacolo comprendente Salome, ma in séguito abbinata anche al Prigioniero di Dallapiccola]. Nel campo del repertorio orchestrale i piú notevoli sono Verwandlung 1-6 [2002-2014], Nähe fern 1-4 [2011], Transitus III [2019], il Secondo concerto per pianoforte [2014]. Per ensemble ridotti scrisse, tra molti altri lavori, Jagden und Formen [1995-2008], Séraphin-Sphäre [1993], Fetzen [1999] o Mnemosyne [2009]”. Ma al di là di questo elenco ufficioso, nello sterminato catalogo di Rihm si rincorrono titoli, date, rielaborazioni e bouleziane dérives, in un insieme straordinario di works in progress.
Proprio per questo intrecciarsi di stimoli contrastanti attraverso gli oltre cinque decenni della sua attività compositiva riconosciuta, non saprei dire se la divisione in tre “periodi stilistici”, cosí attraente per i musicologi e applicata anche a Rihm, renda pienamente ragione della sua parabola creativa. S’è scritto d’un primo periodo, corrispondente grosso modo agli anni Settanta, durante il quale i referenti meglio percepibili, anche per la già ricordata influenza del suo maestro Velte, sono appunto Beethoven e la seconda scuola di Vienna (ancora giovanissimo, Rihm aveva addirittura orchestrato i Sei piccoli pezzi per pianoforte, Opus 19 di Schönberg). Negli anni Ottanta, come immediatamente percepibile anche dall’ascolto di Hamletmaschine in confronto a Jakob Lenz, e, perlomeno a mio parere, dei Quartetti per archi dal quinto all’ottavo in confronto ai primi quattro e ai due dell’adolescenza, il linguaggio si fa piú asciutto, forse meno espressivo, con il suono che sembra quasi voler diventare emblema di significati. Dall’inizio degli anni Novanta in poi, sembra infine prendere piede una sintesi di queste due posizioni, sfociante spesso in esiti di scoperta cantabilità, come quella che trovo di grande fascino nei tre cicli di Lieder su poesie di Hermann Lenz (da non confondersi con Jakob, vissuto due secoli prima), Heiner Müller, autore dell’ipotesto di Hamletmaschine, e Rainer Maria Rilke, cicli creati con percepibile continuità tra il 1998 e il 2000. Ne esiste una splendida registrazione con il tenore Chistoph Prégardien e il pianista Siegfried Mauser, già dedicatario, all’inizio di quel decennio, dell’ampio Nachstudie, esempio quasi incredibile della possibilità di tener desta per mezz’ora l’attenzione dell’ascoltatore indirizzandola quasi esclusivamente a fatti sonori di carattere meramente sensoriale (anche se di tanto in tanto vi riaffiorano percepibili riferimenti a modi del tardo Beethoven).
Ma credo che maggiore significato di queste esperienze d’ascolto indiretto abbia qualche ricordo dal vivo. Di tre diverse produzioni del Lenz e di quella casselese di Hamletmaschine ho scritto per OperaClick tra il 2012 e lo scorso marzo. Per quest’ultima lamentai la tendenza programmatica a far prevalere la regia, forse perché considerata oggi d’impatto piú immediato che non la musica. Identica sensazione, però, avevo avuto durante nel 2015 la complessa messinscena salisburghese della Conquista del Messico, che mi sembrò deviare l’attenzione dall’essenzialità del discorso musicale.
Tra fine novembre e inizio dicembre del 2016 fu dedicata a Rihm la manifestazione, anch'essa salisburghese, Dialoge-Grenze. Tra le molte esecuzioni di suoi pezzi da camera e un Lenz semiscenico, m’impressionarono moltissimo due concerti di Marino Formenti nel cenacolare Wiener Saal del Mozarteum. Tra composizioni di Mozart in parte poco note e in qualche caso rimaste frammentarie, il pianista eseguí del compositore ora scomparso una scelta degli Zwiesprache (che significa “dialogo con un qualcuno non piú presente”) scritti alla fine del millennio, e dei Klavierstücke risalenti agli anni Settanta. La divisione in periodi stilistici alla quale ho accennato sopra ne uscí in una certa misura confermata, ma quel che piú conta è la forte emozione che provai grazie a mondi sonori imprevisti, con l’impressione indelebile d’una capacità creativa insieme irrefrenabile e controllata.
Chuido con un altro pensiero tipico di Wolfgang Rihm: “L’unica cosa di cui ha bisogno la musica sono orecchi davvero aperti”.
Vittorio Mascherpa