“Che nel dicembre 2008 avrei cessato la mia attività concertistica era stato pianificato con cura. Dopo sessant’anni di palcoscenico ero lieto di dedicarmi a nuovi interessi e guardavo in modo rilassato ai miei concerti conclusivi.
Era prevedibile che a Vienna sarebbero stati registrati dalla Radio austriaca; dapprima m’ero opposto alla ripresa del récital di Hannover e la concessi solo all’ultimo momento.
Ora mi rallegro che i risultati siano raccolti qui. Forse confermano che fu corretto smettere per tempo, quando il controllo del “giuoco” non aveva ancora sofferto e rimaneva qualcosa da aggiungere alla mia visione dei pezzi: sembra che il mio corteggiamento della Sonata KV 533/494 di Mozart e del tempo lento di KV 271 abbia dato ancora qualche frutto tardivo.
Saluto i miei ascoltatori e mi congedo con riconoscenza.”
Queste parole di Alfred Brendel, che ho preferito tradurre dall’originale tedesco anziché da quello inglese entrambi firmati in proprio dal pianista con sottili differenze tra loro, presentano i due CD Decca, ormai celebri, con la sua ultima apparizione da solo, il 14 dicembre 2008 a Hannover (Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Bach-Busoni come bis d’addio) e il Concerto in mi bemolle maggiore per pianoforte e orchestra KV 271 di Mozart, tradizionalmente detto “Jeunhomme”, eseguito quattro giorni dopo al Goldener Saal del Musikverein di Vienna con la celebre orchestra locale e la direzione del suo amico Sir Charles Mackerras.
Quasi quarant’anni prima, in un saggio intitolato in italiano Forma e psicologia nelle sonate per pianoforte di Beethoven, il pianista aveva fissato il proprio compito: «quello che m’interessa come interprete – vale a dire nella mia triplice veste di conservatore di museo, esecutore testamentario, e maieutico – non sono gli stereotipi, ma gli elementi particolari ed unici», chiarendo, con parole di Werner Schmalenbach, che «“quello che conta in un museo, è soltanto il carattere incomparabile dell’opera d’arte, aspetto che nulla ha a che vedere con lo stile, poiché su questo piano si possono invece paragonate le opere, indipendentemente dalla loro qualità”». Direi che qui la maieutica, cioè l’arte ostetricia invocata tempo addietro da Socrate per aiutare i discepoli a generare idee proprie, si possa riferire sia al tramutare il testo in suoni, sia alle emozioni suscitabili negli ascoltatori. Un rapporto triplice con la storia, quindi: non stravolgere la lettera delle istruzioni primarie ricevute dal testo; adattarle al momento in cui sono messe in pratica; consegnarle al futuro nelle persone che fruiscono la musica. Qualche tempo dopo, a fama internazionale consolidata, il pianista ribadirà: «non ho mai creduto di dover passivamente ricevere ordini dal compositore; ho piuttosto tentato di servirlo di mia spontanea volontà e a modo mio»; non diversamente, direi, da come un buon executive bada a realizzare gli obiettivi aziendali senza attenersi strettamente alle istruzioni di dettaglio piovutegli addosso e spesso ridicole (se poi sbaglia, peggio per lui: l'alternativa all'Ordine di Maria Teresa era infatti la fucilazione…).
Nato in una cittadina della Moravia settentrionale lunedí 5 gennaio 1931 (lo stesso giorno dell’anno e della settimana in cui videro la luce, undici anni prima e undici dopo, altri due sommi pianisti del Novecento), Alfred Brendel definiva la propria famiglia come “austriaca, tedesca, italiana e slava”. Crebbe nell’allora Jugoslavia, dove i genitori gestivano una pensione sull’isola di Veglia, e a sei anni cominciò a Zagabria gli studi di pianoforte e poi d'armonia. Nel 1943 la famiglia si trasferí a Graz e nel 1947 Alfred superò come privatista l’esame di stato di pianoforte all’Akademie für Musik und darstellende Kunst di Vienna. Seguirono il debutto in pubblico e la partecipazione, nel 1949, al primo Concorso pianistico Ferruccio Busoni di Bolzano.
Il primo premio non fu assegnato; il secondo andò a un pianista italiano di tre anni maggiore, futuro fuoriclasse nella musica da camera purtroppo scomparso prematuramente in un disastro aereo; il terzo a una piú matura allieva di Casella, che solo in séguito reputerà opportuno riprendere il proprio nome di famiglia e si conquisterà ottima fama come docente. Il diciottenne Brendel ebbe il quarto premio, che gli portò non poche scritture, anche in America del Sud, e gli aprí le porte d’una sala di registrazione: per il Quinto concerto di Prokof’ev, un autore che oggi ben difficilmente s’assocerebbe al suo nome — ma anche il debutto, nel 1960, ai Salzburger Festspiele avverrà con il Secondo concerto di Křenek. Il pianista maturo attribuirà particolare importanza all’insegnamento magistrale, negli anni Cinquanta, dell’anziano e “imperfetto” ma profondo e penetrante Edwin Fischer, e gli dedicherà affettuosi ricordi (non diversamente me ne parlava, da semplice ascoltatore, mio padre).
La tendenza a limitare il repertorio ai “quattro grandi classici viennesi”, e con loro a Schumann e Brahms, si profilò infatti molto lentamente. A parte Chopin, che in realtà frequentò poco (ma la sua registrazione delle Polacche fu molto lodata), di grande rilievo resta il contributo di Brendel alla conoscenza e, diciamo pure, alla rivalutazione di Liszt, considerato ancora settant’anni fa ben piú un mostro di meccanica strumentale che un compositore degno d’attenzione. D’altra parte, il baricentro dei suoi interessi si può facilmente intuire da quanto scrisse nelle note d’accompagnamento alla registrazione integrale delle opere pianistiche di Beethoven per la Philips (1966, la prima mai realizzata), preceduta tra il 1958 e il 1964 dalla “quasi integrale” per la Vox-Turnabout: «le opere per pianoforte di Beethoven anticipavano largamente la fattura dello strumento» e «rassegnamoci: sentir suonare Beethoven sugli strumenti di oggi significa ascoltare una sorta di trascrizione». Il pianista che, forse non senza ironia, l’illustre esegeta Piero Rattalino pose in testa a quel che chiamò «l’esercito di Solone», espresse cosí la propria poetica d’interprete: «comprendere le intenzioni del compositore significa trasmetterle secondo la comprensione che se ne ha. La musica non può parlare da sola. È assolutamente ridicolo credere che un interprete possa accantonare i suoi sentimenti personali e aspettare che quelli del compositore gli cadano dal cielo. Quel che il compositore ha voluto dire scrivendo nero su bianco, può essere chiarito solo coinvolgendo i propri sentimenti, i propri sensi, la propria intelligenza e la finezza delle proprie orecchie … È ugualmente pericoloso forzare la “nota personale”, così come evitarla; quando non si manifesta da sola, ogni sforzo è vano». Queste rigorose premesse autocritiche gli hanno permesso d'approfondire quattro sommi autori a un livello che lo portò ad essere inserito in una lista comprendente Schnabel, Backhaus, Kempff e appunto Fischer. D’altra parte, persino la sua registrazione dei Quadri amplia la conoscenza di Musorgskij. E restano “di riferimento” quelle del Concerto per pianoforte e orchestra di Schönberg con Michael Gielen, e dei due di Liszt con lo stesso direttore.
Dopo Bolzano, il suo primo concerto in Italia del quale sono riuscito a trovare traccia è quello che inaugurò l’auditorium nel castello dell’Aquila nel novembre 1953, insieme con l’Orchestra da camera dei Wiener Symphoniker. Alla Scala arrivò per un concerto della Stagione sinfonica 1976, con il Primo di Beethoven; era sul podio Jurij Aronovič; meno di un anno dopo ritornò a Milano per la Società del Quartetto, la prima di quattordici volte fino al 2008; il programma era monumentale: la Sonata in Sol maggiore D 894 di Schubert e la Hammerklavier. Nel marzo del 1978 fu di nuovo alla Scala per il centocinquantenario della scomparsa di Schubert con i Momenti musicali e due Sonate, quelle in La minore D 784 e la Gasteiner, D 850. Nel giugno del 1980, ormai quasi cinquantenne, ebbe la sua definitiva consacrazione milanese nelle quattro sere in cui sonò il Quarto di Beethoven: il Rondò che ascoltai allora da lui e Claudio Abbado resta un colpo d’ale, un episodio che nella mia conoscenza dal vivo di questo concerto s’affianca all’Allegro moderato “di” Backhaus nel novembre 1962 e all’Andante con moto “di” Pollini nell’ottobre 1983.
Nel 1985, pochi giorni dopo il caos della “grande nevicata”, Brendel portò per la prima volta alla Scala un programma che presentava insieme i quattro autori “viennesi”. Ci colpí, quella volta, che eseguisse, dell’Opus XI di Mozart, solo la Sonata (quella in Do minore, KV 457), e in seguito venimmo a sapere che era sua insolita, ma ferrea convinzione che non fosse intimamente legata alla Fantasia KV 475: non ci capitò infatti mai di sentirle insieme da lui. A Milano ritornò solo quasi otto anni dopo, nell’ottobre 1992, ancora per la Scala, con un programma che univa le tre diversissime sonate dell’Opus 31 di Beethoven con quella in La maggiore op. 101.
Per il Quartetto sembrava divenuto inafferrabile, ma nel 1994, se ben ricordo, l’avv. Magnocavallo lasciò cautamente trasparire in un’“adunanza generale” che si sperava in un suo ritorno (alla domanda d’un socio che chiese se era vero che Brendel avesse “un cattivo carattere”, rispose: “diciamo che ha un carattere…”). Nel ’95 riuscii ad andarlo a sentire a Salisburgo. Gérard Mortier aveva combinato lo stesso “programmino” con Pollini e Brendel a otto giorni di distanza: le ultime tre sonate di Beethoven. Al tono epico, altamente retorico del primo, ascoltato per radio prima di partire, fu affascinante contraltare l’apparente oggettività del secondo: disponeva davvero di quel «ventaglio straordinario di sfumature», di quella «grande libertà» interiore che vent’anni prima aveva scritto essere necessarie «perché la semplicità non lasci posto al vuoto e alla noia». La meccanica dello Steinway regolata in modo molto morbido, quasi cedevole, e un uso abilissimo del pedale di risonanza in funzione timbrica mi parvero i segreti di quella riuscita particolarissima che nell’ottobre dell’anno seguente, quando ricomparve dopo diciannove anni al Quartetto con il medesimo programma di Salisburgo, l’ambiente piú familiare e acusticamente piú cristallino della Sala Verdi esaltarono al punto che nell’intervallo dopo la Fuga dell’Opus 110 ero in uno stato prossimo all’afasía.
Il ghiaccio era stato rotto e per i concerti di Brendel a Milano l’iniziativa passò da una Scala divenuta provinciale alla Società del Quartetto. Nella sala Piermarini-Sanquirico il Nostro sonò tre altre volte, ma infatti sempre in “coproduzione”. Fu suo, ai primi di novembre del 1999, il concerto Haydn-Schubert-Mozart che aprí la serie Grandi pianisti alla Scala (“coprodotta” allora anche dalle Serate Musicali); e alla Scala si tennero sia la serata conclusiva delle tre dedicate ai Concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven, nel 2000 con David Zinman sul podio del Tonhalle-Orchester Zürich, sia, l’11 novembre 2008, la tappa milanese della tournée d’addio, con lo stesso programma conservato dalla registrazione di Hannover: le Doppie variazioni di Haydn, l’Opus 27 n. 1 di Beethoven, la KV 533/494 di Mozart, la D 960 di Schubert e Nun komm, der Heiden Heiland come congedo.
Questo concerto coronò una sequenza continua che si era aperta nella stagione “ordinaria” 2002-03 del Quartetto: per sette anni, ogni autunno Brendel ritornò a Milano, con programmi sempre dedicati quasi esclusivamente ai suoi quattro autori preferiti, ma senza ripeterne mai un pezzo (tranne che talvolta nei bis). Un anno comparve anzi due volte in tre settimane: la prima con suo figlio Adrian per le sonate “dispari” e le variazioni su tema di Händel per violoncello e pianoforte di Beethoven. La seconda racchiuse i Drei Klavierstücke D 946 tra il Mozart “sperimentale” di due sonate dell’anno della Finta giardiniera e il Beethoven visionario dell’Opus 109. Nello stesso decennio lo ascoltavo spesso alla Schubertiàde di Schwarzenberg, da cui ricordo una anche Kreisleriana “semplice” fino alle soglie del mistero; e a Salisburgo, dove nel 1999, al Mozarteum, era stata trionfale una Winterreise con Matthias Goerne ancora piuttosto giovane e non diventato il cultore di sé stesso; e a Lucerna, dove la sua collaborazione con Claudio Abbado portò a un Terzo di Beethoven, culminato nel Largo, che pose in risalto, insieme alla straordinaria “tenuta narrativa” del pianista, anche la capacità unica del direttore di non contraddire l’interpretazione dei solisti, ma anzi di immedesimarvisi: fatta salva la differenza imposta dall’impiego d’una grande orchestra rispetto a un complesso quasi cameristico, non si potevano immaginare due conduzioni cosí diverse e al tempo stesso coerenti come quelle dello stesso concerto con Brendel e, poco dopo, a Ferrara con la Argerich.
E Haydn! Brendel lo definí «avventuriero infaticabile» e condivise, paradossalmente, l’interesse per questo sommo sperimentatore, inesausto illusionista e umorista, con il quasi coetaneo Glenn Gould, che fu messo a capo dell’«esercito di Arlecchino» opposto al suo «di Solone» — ma se pensiamo a due illustri pianisti in attività, non meno diversi tra loro, che lo eseguono non sporadicamente, Ándras Schiff e Maurizio Baglini, diventa chiaro che nel “padre della sinfonia e del quartetto” chiunque voglia e sia capace di cercare trova pane per i suoi denti. Di Haydn è uno dei pezzi, le Variazioni in fa minore Hob.XVII:6 (già ricordate sopra come Doppie variazioni), che Brendel prediligeva sonare nei suoi ultimi anni d’attività pubblica, rendendole sempre in modo esemplare. Gli si deve anche la magistrale rivalutazione della Sonata quasi una fantasia op. 27 n. 1, una delle due sole di questo autore in cui, fa notare, non compaia mai la forma-sonata; già il Czerny la indicava come “una delle piú belle, anche se non delle piú facili” di Beethoven, ma essa rimane tuttora nell’ombra della popolarità enorme dell’Opus 27 n. 2, la cosiddetta Mondschein-Sonate. Se è lecito esprimere una gratitudine personale e privata per un personaggio cosí “pubblico” come fu Brendel, la mia gli è dovuta in primo luogo per la “scoperta” di queste musiche e la profondità di sentimenti e pensieri alla quale le sue esecuzioni mi sanno portare ogni volta che le ricordo o riascolto.
(Tutte le citazioni tra virgolette caporali di scritti di Alfred Brendel sono tratte alla lettera dalle traduzioni italiane nel volume Il paradosso dell’interprete, Firenze 1997.)
Vittorio Mascherpa