A una settimana esatta dall'apertura della stagione del Piermarini, sui social si susseguono i post di commento al Don Carlo andato in scena lo scorso 7 dicembre: commenti permeati soprattutto dalle idee dei “novatori” sempre pronti a censurare come “privo di regia” un allestimento considerato “tradizionale” come quello firmato da Pasqual. Critica invero mal posta, giacché “l’assenza di regia” può essere riscontrata nella mancanza di costruzione psicologica dei personaggi, nella loro sostanziale immobilità sulla scena, nei gesti artefatti e tutto sommato scontati, non già nella scelta di non eradicare la vicenda dalle tenebre della Spagna cinquecentesca. Ritorna, in altri termini, l’eterna polemica tra sostenitori delle “regie tradizionali” e ammiratori delle “regie moderne”, sempre pronti – a prescindere dalle ambiguità della formula in questione – a spellarsi le mani di fronte a trovate mirabolanti come Filippo II in bretelle, l’Inquisitore con gli occhiali (ma non era cieco?), Eboli in elegante décolleté.
L’ascoltatore mediamente attento fatica a trattenere uno sbadiglio: il teatro d’opera non vive di soli colpi ad effetto più o meno riusciti. Il teatro d’opera è, appunto, opera: protagonisti sono i cantanti, non i registi in cerca di visibilità. E allora, proviamo a parlare di musica?
Sul punto, il confronto declina rapidamente nella altrettanto abusata contrapposizione tra la furia dei detrattori a ogni costo (per intenderci, i fanatici del "Povero Verdi, Povera Scala") e i peana melensi e un filino melanconici intonati da quanti (anche tra i cosiddetti esperti) sentono il bisogno di esternare all’orbe telematico il loro entusiasmo per avere vissuto una serata magica, unica, irripetibile, e via iperbolando in modo vario ed eventuale.
Gli sbadigli dell’ascoltatore mediamente attento si fanno incontrollabili: perché i fanatici del "Povero Verdi" magari sono gli stessi che, nel 1992 massacrarono Pavarotti (Pavarotti…) per un'incertezza sul Si dell'autodafé, indifferenti al fatto che, nel resto dell'opera, big Luciano si rese protagonista di una prova (se non leggendaria: l'era dei concertoni era già iniziata, e al suo Don Carlo non fu risparmiata la “puntatina a Surriento” che caratterizzava le esecuzioni del tenorissimo nell’ultima fase della carriera...) comunque di ottimo livello. Ma soprattutto perché il coro degli adulatori ad ogni costo (comprensivo degli esperti di cui sopra...) si incaponisce nell'operazione (incomprensibile, sempre nella prospettiva dell'ascoltatore mediamente attento) di trasformare uno spettacolo normalissimo in un'esecuzione da ricordare: un po’ come descrivere alla stregua di pregiato Dom Perignon un accettabile spumante da ristorante non impegnativo.
Ecco, si chiede l’ascoltatore mediamente attento, una volta destatosi dal torpore: è così difficile, alla fine dei conti, ammettere che lo scorso 7 dicembre abbiamo appunto assistito a uno spettacolo semplicemente "normale", nel quale la resa dei cantanti non ha proposto né particolari incidenti (il pensiero ritorna ancora una volta alla scena dell’autodafé, ma il loggione scaligero non impiega per forza di cose con i tenori attualmente in carriera la stessa intransigenza con cui giudicava Pavarotti…) , né particolari punte di eccellenza, se si esclude la prova di Pertusi - capace di giganteggiare malgrado l'indisposizione che lo ha colpito prima della recita - e la canzone del velo della Garanca? Ed è così difficile riconoscere che, nella storia di Sant’Ambrogio, le serate leggendarie, uniche, irripetibili sono state altre? Senza scomodare la Norma con la Callas e Del Monaco, volgendo la mente al passato non remoto, viene quasi istintivo richiamare proprio il Don Carlo diretto da Abbado, con Carreras al massimo della forma; il Macbeth con Cappuccilli e la Verrett (sempre Abbado sul podio); o l’Otello di Kleiber con Domingo, la Freni e lo stesso Cappuccilli.
Facile l’obiezione: occorre rifuggire la sindrome dell’epoca d’oro, la stagione dei Carreras, dei Cappuccilli e delle Verrett è finita da un pezzo. Altrettanto facile la replica: appunto, malgrado quella stagione sia finita, di loro ci ricordiamo ancora. Del Don Carlo della settimana scorsa, invece, probabilmente ci dimenticheremo entro Natale. Quando ammiratori delle regie tradizionali, fanatici del "Povero Verdi" e adulatori ad ogni costo avranno trovato qualche altro argomento su cui dibattere, per alimentare gli sbadigli dell’ascoltatore mediamente attento.
Carlo Dore jr.