1979, Teatro alla Scala. Un gennaio freddo e nevoso come ormai non ce ne sono più. La voce si sparge in un baleno tra noi giovani loggionisti: stasera canta Cesare Siepi. Basta un giro di telefonate e subito io, Luca, Giordano, Ira e Maria Grazia ci diamo appuntamento per fare la coda per i posti in piedi in galleria.
Allora era tutto molto diverso: non c'erano numerini o appelli. C'era la coda e dovevi stare lì tutto il sacrosanto giorno. Col freddo, col gelo e con la nebbia. Noi giovani, alle prime, andavamo in coda alle quattro del mattino. E non per paura di restar fuori dal teatro: all'epoca entravano tutti e spesso la coda finiva a metà di via Filodrammatici, svoltato l'angolo. No, noi andavamo per poter parlare d'opera, per poterci confrontare con i nostri simili: quei curiosi animali che frequentavano il mondo del melodramma e che parlavano di mitici cantanti. "Io ho sentito Tucker che teneva la pira 8 secondi"; "Eh, sì, ma Salvarezza una volta a Novara la tenne per 9...e poi la trissò", "Ma volete mettere con Corelli?" E via dicendo... Bei tempi: l'ingresso costava 500 Lire, poi aumentate a 1000 qualche anno dopo.
Essendo l'epoca del terrorismo, spesso venivamo controllati da poliziotti o carabinieri che non si capacitavano che alcuni giovani imbaccuccati fossero lì solo per poter ascoltar musica. A volte il Biffi Scala (non c'è più, purtroppo: altro pezzo scomparso della vecchia Milano), per permetterci un minimo di sollievo, ci offriva il caffè all'apertura.
Ma bando alla nostalgia...la jeunesse n'a qu'un temps. Torniamo a Siepi ed a quel Simone scaligero.
Il leggendario basso non cantava a Milano da quasi trent'anni e noi lo consideravamo come una sorta di icona del passato: un po' come Di Stefano, la Callas, Del Monaco o Gobbi. Insomma, che cantasse ancora, pochi lo sapevano e quei pochi pensavano che ormai la sua carriera fosse interamente americana. Invece, sorpresa: come Fiesco avrebbe cantato lui. E con un cast di grandissimi: il Piero (Cappuccilli, ovviamente), Felice Schiavi immancabile Paolo Albiani, Doro Antonioli, un tenore di molti meriti di cui riparleremo, e Kiri Te Kanawa che passò quasi inosservata. Ovviamente tutti conoscevano Cesare Siepi attraverso il disco. Certe sue interpretazioni erano (e sono ancor oggi) leggendarie.
Quando diedero in televisione la replica del Don Giovanni di Salisburgo diretto da Furtwaengler, ci si riunì a casa mia per vederlo e commentarlo in gruppo davanti ad un piatto di bucatini all'amatriciana. E che sia chiaro: per me Siepi è il prototipo di Don Giovanni, gli altri vengono tutti dopo. Per questi motivi, l'attesa era spasmodica e quando risuonarono i primi accordi per l'entrata di Fiesco, l'emozione era palpabile nell'aria. Abbado tenne l'orchestra leggermente più attenuata perchè la voce di Siepi era certamente meno fluviale rispetto al titolare del ruolo Nicolaj Ghiaurov. Però, dalle prime note, si ascoltò uno strumento vocale irripetibile per colore, levigatezza e pastosità. Un organo, un violoncello, impastato di miele e dal sentore di cannella. Insomma, una meraviglia. No, sfumature non ce n'erano. Bastava il timbro per delineare il personaggio. Bastava il legato impeccabile per far capire l'intimo dramma del nobile genovese padre di Maria. Ed arrivati a quella struggente frase "No, la figlia dei Grimaldi" con quel che segue, partì un tentativo di applauso, subito zittito dai soliti Torquemada da teatro. O, forse, da quelli che semplicemente lo volevano ascoltare. Non fu un trionfo, come avrebbe sicuramente meritato. Forse perché il freddo gennaio di quell'anno impedì a molti di recarsi a teatro o, forse, perché il canto nobile e composto di Siepi, non poteva competere con le bordate di un pur già declinante Ghiaurov. Era l'ultima recita e successivamente non tornò più a cantare in Scala. Ebbi modo, comunque, di ascoltarlo parecchie volte altrove: al Regio di Parma dove incarnò uno strepitoso Baldassarre in Favorita accanto ad Alfredo Kraus (credo che il Do grave in "Splendon più belle" risuoni ancora negli anfratti di quel teatro) e poi, sempre a Parma in Don Basilio del Barbiere dove formava una vera coppia comica con il Bartolo di Trimarchi e dove ritrovava Cappuccilli che sostituiva Panerai che, a sua volta, doveva sostituire Nucci. Ed ancora Jérusalem (forse un passo falso) sempre a Parma, nuovamente Fiesco alla Rocca Brancaleone di Ravenna con Bruson, la Ligi e Cossutta ed il dolente Filippo II in Don Carlos allo Sferisterio di Macerata in un cast stellare: Caballé, Bumbry, Giacomini e Zancanaro.
Come detto, in Siepi non si dovevano cercare coinvolgimenti interpretativi assoluti come in Christoff o Rossi-Lemeni e neppure la torrenzialità vocale di un Ghiaurov (prima) o di un Burchuladze (poi). Ma la cavata, il colore, la nobiltà mai spinta all'eccesso, la morbidezza, la bellezza timbrica e la tecnica perfetta che gli ha consentito di esibirsi fino a tarda età, ne fanno, per mio conto, il basso per antonomasia.
Dal Faust di Gounod con Conley del 1950, fino alle ultime registrazioni, tutto è semplicemente sublime, lives compresi. Ed ascoltate come canta anche le songs di Cole Porter, edite più volte in CD: una meraviglia assoluta.
Un ultimo ricordo: pochi anni dopo, giovane conduttore insieme all'amico Luca Gorla di una rubrica radiofonica operistica su Radio Popolare, venni contattato dai proprietari del Teatro Nazionale di Milano per organizzare una stagione concertistica di recitals vocali. Tra i tanti, chiamammo anche Siepi che ci disse che sarebbe venuto anche gratis, pur di cantare nella sua città. Ma voleva assolutamente eseguire i Lieder di Brahms. Purtroppo il progetto andò in fumo ed al posto dei concerti di canto furono organizzate due serate con Svjatoslav Richter. Strepitose, ovviamente. Ma resta il rimpianto di non aver potuto ascoltare dal vivo il Brahms di Cesare Siepi.
Carlo Curami